giovedì 6 agosto 2009
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Caro Direttore, leggo con interesse gli articoli dedicati al carcere pubblicati da Avvenire. In nessuno, però, sono stati citati gli Avp: siamo migliaia che in qualità di volontari assistiamo, nelle carceri italiane, i detenuti e portiamo loro assistenza morale. Il gruppo del quale faccio parte ha ottenuto il permesso di contattare i reclusi cella per cella. Lo scorso anno abbiamo portato sostegno morale a più di 1.200 detenuti, visitandoli periodicamente. In questo modo abbiamo l’opportunità di contattare il detenuto che per sua scelta non ha rapporti con nessuno. Si tratta di persone che rifiutano di usufruire delle ore d’aria e che non comunicano neppure con il compagno di cella. A volte queste situazioni ci vengono segnalate dall’agente del piano. L’esperienza acquisita in più di vent’anni di servizio ci aiuta a cogliere la situazione e a comprendere quando siamo di fronte a persone «a rischio»; in questi casi non manchiamo di informare chi di dovere. Quasi sempre riusciamo a scuotere questi detenuti dal loro torpore, a indurli ad accettare la nostra stretta di mano. A volte, quando usciamo per passare alla cella successiva, veniamo richiamati indietro per essere rassicurati dell’impegno a ritornare. All’incontro successivo, il recluso spesso ci ringrazia per averlo in qualche modo costretto a uscire dalla disperazione nella quale si era chiuso (preludio in qualche caso a un gesto estremo). Nella nostra opera seguiamo scrupolosamente tutte le regole prescritte dai regolamenti carcerari; alcune ce le siamo imposte autonomamente: ascoltare con attenzione, condividere con rispetto, al di là del reato commesso o del colore della pelle di chi ci sta di fronte, perché di fronte a noi c’è una persona fatta a immagine e somiglianza di Dio. Noi Avp chiediamo soltanto una volta all’anno il rinnovo del permesso per poter continuare a portare sostegno morale al detenuto.

Vittorio Guercio, Torino

Chiarisco subito la sigla che lei usa con familiarità, ma che può risultare ignota a tanti nostri lettori: «Avp» sta per «assistenti volontari penitenziari» e designa le persone che, come si intuisce dalla sua testimonianza, offrono solidarietà e condivisione ai detenuti e talora anche alle vittime di reati. Da giorni le cronache – e il nostro giornale in particolare – riferiscono dei problemi gravissimi che affliggono le nostre carceri, nelle quali il sovraffollamento si accompagna a un aumento drammatico dei suicidi. Siamo in presenza di difficoltà strutturali che diventerebbero ancora più esplosive se non ci fosse l’opera di chi, come voi volontari, si presta generosamente per offrire vicinanza umana ai carcerati. E bastano le sue parole, asciutte e senza alcuna caduta nel sentimentalismo, per dimostrare il valore straordinario della vostra azione. Spesso, assieme ai cappellani, siete una delle rare presenze che testimoniano al detenuto che per lui c’è una vita oltre la reclusione; che il mondo esterno non è del tutto impermeabile alle angosce di lui che si trova dietro le sbarre. Senza qualcuno che offra attenzione mentre la pena viene scontata, il carcere rischia di essere un pozzo senza fondo nel quale crescono i fantasmi più inquietanti, fino a far smarrire ogni valore alla vita. Raccolgo quindi volentieri la sua sollecitazione a prestare attenzione maggiore alla realtà del volontariato carcerario: non serve che sottolinei come il nostro sia peraltro l’unico quotidiano che ha da anni una finestra settimanale aperta sulla realtà del mondo recluso con la rubrica «Primo raggio» tenuta da Vincenzo Andraous proprio in questa pagina. Un caro saluto, rinnovando l’apprezzamento e l’augurio per l’opera meritoria svolta da lei e dai suoi colleghi volontari.
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