mercoledì 11 settembre 2013
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La differenza è di tre ore, ma l’appuntamento di ieri alle 20 al Senato sembrava davvero La cogida y la muerte, il «cozzo e la morte», dedicata da Federico García Lorca alla caduta del torero Ignacio Sánchez Mejías, appunto a la cinco de la tarde, con tutti gli orologi sincronizzati sull’evento della politica italiana, a battere l’ora fatale non del destino di un singolo, ma di una collettività. Alle «cinque della sera», la stessa ora in cui chiudono le arene dei mercati finanziari, quelli che ieri hanno registrato il vantaggio della Spagna rispetto all’Italia nella corsa dello spread. Con i titoli di Stato iberici calati a 248 punti rispetto al livello di riferimento dei Bund tedeschi e i nostri Btp decennali cresciuti fino a quota 250 punti. Un sorpasso poco più che simbolico sul piano strettamente finanziario, ma quanto mai significativo per le motivazioni che lascia intravedere.Il livello dello spread riflette (o meglio, dovrebbe riflettere) il differenziale di solidità, di sicurezza offerta all’investimento in un titolo di Stato rispetto a quello di un altro Paese. E allora davvero la Spagna offre maggiori sicurezze per un investitore rispetto a noi? Se si pongono a confronto i dati economici, in realtà, ci si accorge di come per nessun parametro la Spagna appaia più solida o in crescita rispetto all’Italia. Non per il Pil, previsto da Eurostat al -1,5% nel 2013 contro il -1,3% da noi. Non per disoccupazione, che è il doppio della nostra. Non per rapporto deficit/pil assai più elevato e neppure quanto a debito pubblico, come stock sì inferiore al nostro, ma letteralmente esploso negli ultimi anni. E così pure, Madrid ha un livello inferiore di produttività, ha un minore export, ha subito una contrazione maggiore dei consumi interni e del reddito delle famiglie rispetto a quanto non sia accaduto da noi. Insomma, dal punto di vista di quelli che si chiamano i «fondamentali» economici sta decisamente peggio dell’Italia. In via teorica dovremmo avere un livello di spread inferiore di una cinquantina di punti almeno, rispetto a quello iberico, se non i 100 raggiunti nel gennaio scorso.Perché allora si è verificato prima il pareggio e poi addirittura il sorpasso? La risposta sta nell’unico parametro – non economico – in cui la Spagna ci surclassa: la stabilità politica. Se si prendono a riferimento gli anni della lunga crisi economica dal 2007 a oggi, infatti, il Paese iberico ha visto succedersi solo due governi – il primo guidato dal socialista José Luis Rodriguez Zapatero e il secondo dal popolare Mariano Rajoy. In mezzo, a sancire un’alternanza fisiologica, senza drammi, una sola elezione politica. Negli stessi anni, invece, da noi di governi ne sono succeduti il doppio, ben quattro: dal fragile esecutivo di Romano Prodi a quello apparentemente solido di Silvio Berlusconi; dalla compagine dei tecnici di Mario Monti alle attuali "larghe intese" di Enrico Letta. Nel mezzo due elezioni politiche, una legislatura terminata con largo anticipo, e per sovrappiù una compravendita di senatori sulla quale sta indagando la magistratura, maggioranze composte e ricomposte come pezzi di un puzzle e due decisivi interventi del capo dello Stato per evitare al Paese esiziali salti nel buio. Per non parlare del continuo conflitto tra i poteri politico e giudiziario; di una legge elettorale pessima e segnata per due volte (ancora invano) dal gesso rosso dell’incostituzionalità e della frammentazione del quadro politico.In una sera di settembre, allora, questo Paese pieno di contraddizioni e di risorse mal usate torna a rischiare la cogida y la muerte, il cozzo e la morte. Proprio nel momento in cui aveva trovato, nel «governo di servizio» e nelle larghe intese che lo sostengono, una sorta di stabilità operosa. Con l’esecutivo impegnato, pur con fatica, a impostare le riforme utili per uscire dalla crisi, agganciando i primi, ancora flebili, segnali di ripresa. E allora non è il momento, per nessuno, di piantare banderillas. Si può ancora, invece, uscire dall’arena con tre gesti, dignitosi e generosi insieme: da una parte, la fine dei tentativi di predisporre tutto per una vendicativa umiliazione di Silvio Berlusconi; dall’altra, le dimissioni da senatore del leader del Pdl prima che gli sia definitivamente irrogata la pena accessoria (e non graziabile) dell’interdizione dai pubblici uffici; e infine, da tutti i partiti di governo, l’impegno a mantenere il bene dell’Italia e il futuro dei suoi cittadini sempre al primo posto. Evitando bagni di sangue, azzerando forse agli occhi del mondo e dei concittadini anche lo spread della credibilità.
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