sabato 13 aprile 2013
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Come dare torto al presidente della Cor­te Costituzionale, quando lamenta i tanti inviti e le ripetute sollecitazioni, sistematicamente inascoltati dal Parlamen­to, ad aggiornare e integrare la nostra legi­slazione, per renderla sempre più aderente ai principi della Carta fondamentale? Come non concordare con il suo richiamo sulla na­tura delle «esortazioni» provenienti dalla Consulta, che non possono essere trascura­te da deputati e senatori, come se si trattas­se di un «mero auspicio», perché esse vanno piuttosto accolte come un doveroso sprone «a intervenire», smettendola di fare orecchie da mercante? Davvero è impossibile non as­sentire all’autorevole monito arrivato ieri dal professor Franco Gallo, quando ha ricorda­to che le Camere rappresentano, in un cor­retto equilibrio istituzionale, «il naturale in­terlocutore» della Corte.  È abbastanza comprensibile, inoltre, che nel­l’esemplificare alcune prese di posizione con­tenute in altrettante sentenze, e regolarmente rimaste lettera morta, il numero uno della Consulta abbia pescato in qualche modo nel­la casistica più recente, toccando materie re­se di particolare attualità dalla contingenza politica e dalla pressione congiunta di mass media e ben definite lobby. Eppure, nella giu­risprudenza più consolidata di Piazza del Quirinale, non mancano altri esempi non meno vistosi di antica noncuranza, che han­no prodotto effetti nefasti sulla vita sociale e inferto vulnus dolorosi a vastissime catego­rie di cittadini. Certamente, per citare una vicenda che ab­biamo tante volte richiamato su queste co­lonne, un grande tributarista come il presi­dente Gallo non potrà non ricordare almeno due sentenze storiche sul trattamento fisca­le dei redditi familiari: la prima, la numero 179 del 1976, che bocciò il 'cumulo dei redditi' previsto dalla riforma Visentini, la seconda, la 76 del 1983, che ribadì l’obbligo della tas­sazione separata dei redditi dei coniugi. Nel primo caso, la Corte sancì chiaramente il principio che l’imposizione è personale (de­sumendolo dall’articolo 53 della Costituzio­ne), ma espresse «l’auspicio» che ai coniugi fosse data la facoltà di scegliere un differen­te sistema di tassazione, per agevolare «la for­mazione e lo sviluppo della famiglia», con un richiamo quasi letterale all’articolo 31 della Carta, dove si stabilisce che la Repubblica de­ve tutelare «con misure economiche ed altre provvidenze» la famiglia e i suoi compiti. Che ne è stato di quel 'pro memoria'? Passarono pochi anni (ma da allora ne sono trascorsi inutilmente altri 30!) e la Consulta fu investita di una delle più clamorose in­giustizie del sistema impositivo italiano: il trattamento delle famiglie monoreddito. In quella occasione i giudici non si limitarono agli auspici. Ma mentre ribadirono che il re­gime di tassazione separata «è imprescindi­bile », scrissero a chiare lettere che «spetta al­lo stesso legislatore di apprestare rimedio al­le sperequazioni che da tale sistema, rigida­mente applicato, potrebbero derivare in dan­no della famiglia nella quale solo uno dei co­niugi possegga reddito tassabile». Quella vol­ta il rinvio all’articolo 31 e al principio del fa­vor familiae fu preciso ed esplicito. La Corte entrò perfino nei dettagli, suggerendo o la predisposizione di «un sistema alternativo» di imposizione da affiancare «in via opzio­nale » a quello vigente, oppure una ristruttu­razione di oneri deducibili e detrazioni», «per meglio adeguarli all’esigenza medesima». Ma anche quella volta la sordità di forze po­litiche, istituzioni e, persino, sindacati non venne minimamente scalfita. Pretendere dunque che, prima di adeguare, come si sol­lecita ora, le norme sulle unioni di fatto del­lo stesso sesso, si cominci a rimediare alle in­giustizie ai danni delle unioni di diritto, le fa­miglie fondate sul matrimonio, ci sembra francamente il minimo. ​​
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