domenica 29 dicembre 2013
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Al Festival di Mantova dello scorso anno il dramma, tutto cinese, del «figlio unico obbligatorio», causa­to da oltre trent’anni di sciagurata politica demografica, si affacciò sulla scena grazie al romanziere francese Eric Emmanuel Schmitt. Ne “I dieci figli che la si­gnora Ming non ha mai avuto” il protagonista, inizialmente riluttante, accoglie il figlio della sua compagna, una volta conosciuta, durante un viaggio in Cina, la signora Ming, il cui desi­derio di maternità era stato ripetutamente e brutalmente impedito da una legislazione cru­dele. Qualche anno prima, a misurarsi con la delicatissima tematica del figlio unico era sta­to, con “La rana”, il principale scrittore cinese contemporaneo, Mo Yan, autore di romanzi fa­mosi, tra cui il celebre “Sorgo rosso”, portato sul grande schermo da Zhang Yimou. Il titolo del libro, con amara ironia, allude alla formidabi­le capacità riproduttiva della rana. Ebbene, stando a quanto deciso ieri dal Comi­tato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, il massimo organo legislativo cinese, la legge del figlio unico – almeno come la cono­sciamo oggi – diverrà presto un ricordo. E con essa, vogliamo sperare, finirà il tragico corolla­rio di abusi, violenze psicologiche e fisiche, a­borti imposti con i quali le autorità hanno ap­plicato una tra le norme più odiate. Pechino ha deciso, sulla scorta di pressioni dal basso sem­pre più forti, che è tempo di mitigare una legi­slazione che sarebbe eufemistico definire se­vera: un pacchetto di norme il cui merito – agli occhi dello Stato – è di aver 'risparmiato' cir­ca 400 milioni di nascite nell’arco di pochi de­cenni. La riforma in cantiere prevede la possi­bilità per i genitori di generare un secondo fi­glio, se risiedono in uno dei grandi centri urbani del Paese e a patto che, nella coppia in que­stione, almeno uno dei due coniugi sia figlio u­nico (oggi il 'privilegio' è riservato alle sole cop­pie composte da due figli unici oppure alle mi­noranze etniche).
Nella medesima seduta il Comitato perma­nente dell’Assemblea nazionale del popolo ha formalizzato un’altra novità, già decisa a no­vembre dal Comitato centrale del Partito co­munista cinese: l’abolizione del sistema dei 'campi di lavoro' (i famigerati laogai). Anche in questo caso, andrebbe in pensione, perché anacronistico oltre che oltraggioso della di­gnità dell’uomo, un altro pezzo dell’eredità maoista: il sistema della cosiddetta 'rieduca­zione attraverso il lavoro'. Di conseguenza verrebbero liberati tutti coloro che vi sono in­ternati: 160 mila detenuti che, secondo i cal­coli più prudenti, sarebbero richiusi in 260 campi. Nei laogai attualmente finiscono spes­so dissidenti politici o personalità religiose, ar­restati per vari motivi e mai condannati da u­na corte. Anche in questo caso, siamo di fron­te a una piaga denunciata, da anni, da alcuni attivisti cinesi: su tutti Harry Wu, un dissiden­te che ha passato lunghi anni nei laogai e ne ha documentato la brutalità. Le due notizie citate – revisione della legge sul figlio unico e chiusura dei laogai farebbero pen­sare a un radicale cambio di paradigma nella politica sociale cinese. Ma le cose non stanno esattamente così. Che i mandarini di Pechino non abbiano perso il vizietto di organizzare e­sperimenti sociali – anche su vasta scala – in ossequio ai dettami del Partito e alle «esigenze della patria», lo dice l’ambizioso, quanto mo­struoso, esodo forzato che si annuncia per i prossimi anni: il trasferimento di circa 250 mi­lioni di contadini nelle medie città del Paese. Un’enorme iniziativa di ingegneria sociale vol­ta ad assicurare l’aumento dei consumi interni per sta­bilizzare l’economia, assicu­rando così alle autorità son­ni tranquilli per il futuro. L’operazione, giurano a Pe­chino, verrà condotta con metodi più soft delle depor­tazioni forzate del passato. Rimane, tuttavia, un proble­ma irrisolto: quello di un grande Paese, sempre più protagonista sulla scena in­ternazionale, che nella poli­tica interna usa i cittadini co­me pedine di un “grande gioco” condotto dai vertici.​
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