venerdì 29 novembre 2013
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A giorni dovrebbero essere rese pubbliche – fatta salva la possibilità di ulteriori proroghe – le liste degli idonei ai posti di professore universitario (ordinario e associato) stabilite dalle apposite commissioni. Si tratta della cosiddetta 'idoneità nazionale', prevista dal riordino del sistema di reclutamento universitario. Le commissioni hanno lavorato con grande fatica, trovandosi a dovere leggere le migliaia di pagine della produzione scientifica di centinaia di candidati (la moltiplicazione è presto fatta), e comprensibilmente hanno chiesto dilazioni temporali per la consegna dei risultati. Finalmente, però, dovremmo essere quasi giunti in porto.
Avremo dei begli elenchi di professori idonei, elenchi che rischiano di trasformarsi in liste di disoccupazione (eccetto per coloro che già sono 'strutturati', come si dice in gergo, cioè in ruolo, a un gradino più basso). Perché il titolo di idoneità di per sé non dà un posto di lavoro, ma è soltanto la condizione preliminare per accedere ai concorsi che verranno poi banditi, su base locale, dai singoli atenei. I quali senza un’adeguata compertura finanziaria difficilmente potranno assumere. Il fatto è che l’università vive una crisi nera, forse più di qualsiasi altra istituzione in questo momento in Italia. A fronte dei pensionamenti, non c’è la possibilità economica di assumere nuovi professori, se non con il contagocce, lasciando scoperte cattedre ed esigenze didattiche: quest’anno in sostituzione dei 2.300 docenti messi a riposo ne sono stati assunti soltanto 400.
In passato certi insegnamenti si sono moltiplicati non tanto sulla base dei bisogni reali dell’utenza, quanto in virtù della volontà di sistemare in cattedra Tizio o Caio: lì, non c’è dubbio, si è fatto bene a tagliare. Come pure si farebbe bene a tagliare certi poli universitari in mezzo al nulla con poche centinaia di iscritti, nati (ma di fatto mai sviluppatisi adeguatamente) per assecondare le manie di grandezza di deputati, sindaci e assessori. Ma non si possono lasciare scoperte discipline fondamentali o affidarle temporaneamente ai 'professori a contratto', vergognoso precariato universitario tipicamente italiano: un docente a contratto è pagato a ore di lezione, fa esattamente lo stesso lavoro di un ordinario, ma in molti casi guadagna in un anno meno di quanto un ordinario guadagna in un mese.
Del resto il 'decreto istruzione', convertito in legge in via definitiva dal Senato il 7 novembre scorso, se prevede, per il prossimo triennio, l’assunzione di un numero consistente di insegnanti di scuola, con l’università non appare altrettanto generoso. Non sono stati neanche recuperati i fondi per premiare gli atenei 'virtuosi'. In sede di conversione in legge del decreto, il ministero dell’Istruzione aveva stanziato 41 milioni di fondi propri da destinare alle università che nella valutazione della ricerca (una procedura realizzata, quest’anno per la prima volta, da un’agenzia indipendente, l’Anvur) hanno ottenuto i punteggi più alti.
La proposta, però, viene bloccata perché qualcuno fa notare che quei soldi sono rubricati come risorse destinate agli investimenti e quindi non possono essere dirottati sul fondo per l’università. Intendiamoci, la cifra non era enorme. Però spiace questa promessa poi ritirata, perché ha il sapore di una beffa o quanto meno di un pessimo segnale che la politica manda al Paese. Da qui la giusta protesta della Conferenza dei rettori, alla quale ha dato forte voce il presidente, Stefano Paleari. Ma virtuosità a parte, il problema è di ordine più generale: se non si decide di invertire la rotta, l’università italiana è destinata alla paralisi.
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