sabato 19 settembre 2009
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La strage di Kabul ha toccato, come nei gior­ni dell’eccidio di Nasiriyah, il cuore degli i­taliani. Ed è il rigoroso e dolente lavoro svolto dai giornali, dalle radio, dalle televisioni e dai si­ti internet che, ancora una volta, con una i­stantaneità altrimenti inimmaginabile, ci sta aiutando a essere – e a manifestarci – popolo e famiglia in questo drammatico momento del­la nostra storia condivisa. È importante che ac­cada. E ci fa riflettere – se appena riusciamo a tenere limpido lo sguardo, a vincere l’emozio­ne e a elaborare il lutto – su che cosa possono e sanno fare i mass media del nostro Paese, quando con varietà di timbri e straordinaria li­bertà d’accenti informano e, informando, co­struiscono con responsabilità salde basi al ra­gionare e al sentire comune. Una riflessione bel­la e triste. Che, purtroppo, si fa subito amara. Nello stesso momento, infatti, sulle pagine di gran parte dei giornali ha trionfato tutt’altro modo di fare informazione. Il respingimento di un ricorso contro l’atto di indirizzo con il quale il ministro Sacconi aveva richiamato, in pieno caso Eluana, i princìpi ordinamentali che dovrebbero impedire di attuare 'proto­colli di morte' nel nostro sistema sanitario na­zionale è diventato l’opposto in titoli e testi: ad­dirittura l’accoglimento di quel ricorso, addi­rittura la bocciatura di una legge in itinere (quella sulla fine della vita). Un’idea impensa­bile, eppure pensata e scritta. E comunicata co­me vera. Sta scritto nero su bianco su tante, troppe, pagine di giornale: ricorso accolto, te­sto di legge picconato. Notizie sbagliate, ep­pure date per buone. Meglio essere chiari, allora. Qui, oggi, alla vigi­lia di quella che avrebbe dovuto essere la gior­nata nazionale di mobilitazione per la libertà di stampa promossa dal sindacato unitario dei giornalisti e che il lutto per i morti di Kabul ha saggiamente indotto a rinviare, non vogliamo parlare di «fine vita» e neppure di Afghanistan. Vogliamo parlare della responsabilità inter­mittente con la quale in Italia si continua a fa­re informazione. Della contemporaneità infe­lice tra alto e civile rigore informativo e verti­ginose cadute nell’approssimazione e nella deformazione ingiusta e persino deliberata­mente feroce. Noi di Avvenire possiamo dirlo, non perché sia­mo più bravi e non sbagliamo mai, ma perché in questo giornale opinioni e cronache, anche le più forti e decise, sono sui fatti e sui misfatti di cui ci occupiamo, non su ciò che vorremmo che fosse accaduto (e quando facciamo un er­rore, almeno proviamo a riparare e a chiedere scusa). Noi di Avvenire dobbiamo dirlo, mentre è an­cora aperta la ferita inferta dall’infame e infa­mante aggressione mediatica scatenata, a suon di carte false, dal 'Giornale' di Feltri contro il direttore Dino Boffo; mentre ancora bruciano i ripetuti tentativi di decidere fuori dalla nostra redazione che cosa andiamo scrivendo (i nostri editoriali e i nostri commenti rimaneggiati ar­bitrariamente...) e quale sia stata e sia la linea del giornale. E noi di Avvenire continueremo a dirlo. In Ita­lia, la libertà di stampa è a rischio tanto quan­to la credibilità dei giornalisti. Nella stessa e­satta misura. Più i cronisti si allontanano dal dovere di informare con rigore e correttezza, meno sono credibili. E meno sono liberi. L’e­sercizio senza responsabilità della libertà di stampa – lo ricordiamo ancora, e prima di tut­to a noi stessi – non è libertà, è arbitrio. È un pro­blema della nostra categoria. È un problema della nostra democrazia. E di fronte a questo problema qui in redazione sappiamo di avere una risposta semplice e di­retta: noi non cambiamo. Qualunque cosa sia accaduta, qualunque cosa accadrà, Avvenire non cambia. Perché così lo vuole la sua comu­nità di riferimento, a sua volta responsabil­mente gelosa della propria soggettività e della propria libertà. Nessuno ci strattoni, insomma: non ci facciamo arruolare, né ci facciamo inti­midire. Avvenire è il giornale di ispirazione cat­tolica, e non rinuncia alla sua autonomia e al­la sua indipendenza. Io non so che cosa faranno i miei colleghi tra quindici giorni, quando la Federazione della Stampa chiamerà di nuovo a manifestare per la libertà d’informazione. Ma so che cosa pensa­no e come lavorano. So che buon giornalismo hanno fatto e vogliono continuare a fare. So che sono uomini e donne liberi e responsabili. E so che da più di quarant’anni il giornale Avvenire non va in piazza, va in edicola. Piaccia o non piaccia.
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