martedì 14 maggio 2013
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Pensatori e politici di o­gni epoca hanno descritto e commentato la guerra, ma nessu­no ha potuto fare a meno di metter­la in relazione al suo opposto: la pace o, quanto meno, la tregua. Nella storia dei popoli, prima o poi, il conflitto cessa. Nell’Italia degli ultimi 20 anni la guerra (di parole, di leggi, di carte bollate e purtrop­po, in qualche caso, perfino di vio­lenza fisica) si combatte attorno al­la giustizia e il momento di tornare alla normalità è arrivato. Per la ve­rità, era arrivato da un pezzo, ma ora ce n’è l’occasione. Mai prima d’ora, infatti, il partito di Berlusco­ni e quello avverso a Berlusconi (ci si perdoni la semplificazione, ma crediamo che renda sufficiente­mente bene l’idea) si erano trovati insieme, con propri uomini e don­ne, ad amministrare il Paese. E pro­babilmente solo un governo che sia portatore di entrambi i punti di vista è in condizioni di mettere mano a una riforma della giustizia che non sia un semplice palliativo. Tutto ciò, beninteso, vale indipen­dentemente dalle sorti processuali dell’ex-presidente del Consiglio e fondatore del Pdl che pure, come sempre, pesano maledettamente sulla scena politica nazionale. Ma deve essere chiaro che quando si parla di 'riforma della giustizia' si parla di lunghezza eccessiva dei processi, di punti di Pil bruciati a causa degli investitori stranieri (e ormai anche italiani) che fuggono per l’impossibilità di recuperare un credito, di valide alternative non giudiziarie alla risoluzione delle li­ti, di carceri che non garantiscono la dignità dei detenuti e di chi vi la­vora, di certezza della pena, di ri­spetto per le vittime dei reati, di ef­fettiva rieducazione e reinserimen­to sociale del condannato, di reali garanzie per chi è in attesa di giu­dizio... Si potrebbe proseguire, ahi­noi, per molte e molte righe. Il con­cetto è, però, chiaro: i problemi del cittadino comune alle prese con u­na causa civile o con un processo penale non hanno niente a che ve­dere con la signorina Karima el Marough (Ruby) o con i bilanci di Mediaset Spa, né con la veemenza oratoria del pm di turno. Ha cercato di dimostrarlo, proprio con il sostegno delle due parti poli­tiche concorrenti, l’esecutivo tec­nico guidato da Mario Monti, por­tando a fatica al traguardo il decre­to cosiddetto 'svuota-carceri', una contrastatissima legge anti-corru­zione e la revisione della geografia di procure e tribunali. Il disegno di legge sulle pene alternative alla de­tenzione in carcere e sull’introdu­zione dell’istituto della 'messa alla prova' è stato invece affondato nell’ultimo giorno della scorsa legi­slatura, a un passo dall’approva­zione definitiva. Non è molto, ma non è neppure poco, se si tiene conto che si tratta di un risultato ottenuto in 18 mesi, dopo quasi un ventennio di 'lodi' e di leggi ad o contra personam, cioè a favore o contro Silvio Berlusconi. Torniamo così all’occasione e alla sfida che si para davanti all’attuale governo che, se reggerà a spallate e maldi­pancia e se davvero volesse aggiu­stare la scoppiettante e sbuffante macchina giudiziaria nazionale, potrebbe fare assai di più di quello che l’ha preceduto. Nessuno, infatti, si sognerebbe di accusare il presidente del Consiglio Enrico Letta e i suoi colleghi del Pd di 'spingere' leggi che possano in qualche modo favorire il Cavaliere. Né si potrebbe pensare che il vice­premier e ministro dell’Interno An­gelino Alfano, con i colleghi del Pdl, possano in qualche modo danneggiare il loro leader indiscus­so. Se una vera riforma ci sarà, pas­serà in mezzo a questi due argini e, finalmente, al di sopra di ogni so­spetto. Sembra un sogno. E forse lo è. Perché la strada, che sulla carta sarebbe segnata, è lastricata d’insi­die. Non a caso il premier Letta, ie­ri, ha definito quella della giustizia una riforma «a gittata più lunga» rispetto alle quattro individuate come prioritarie nel 'ritiro' di Sar­teano. Tuttavia con la giusta vo­lontà politica, stavolta, si potrebbe prendere la mira e fare centro. Vale la pena di tentare.
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