sabato 23 marzo 2013
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Raccontano che in uno dei suoi ricoveri al 'Gemelli', rivolgendosi al medico che lo assisteva, Giovanni Paolo II disse: «Professore, io e lei non abbiamo scelta. Lei mi deve curare e io devo guarire, perché non c’è posto per un Papa emerito». Storia di qualche anno fa, ma sembra passato un millennio. Nel breve volgere di un mese e mezzo, infatti, prima Benedetto XVI ha mostrato che il posto c’è (e del resto era previsto anche dal diritto canonico) e ora Papa Francesco, recandosi a Castel Gandolfo per visitare il suo predecessore, testimonia in pratica che quel posto non solo non è un optional (non può mai esserlo la preghiera), ma possiede anche una sua speciale forza comunicativa.
Che cosa bisogna leggere infatti nel gesto senza precedenti del nuovo Pontefice? Non solo il suo valore epocale, che allunga l’elenco di 'prime volte' cui abbiamo avuto la ventura di assistere in questo straordinario periodo, ma anche e soprattutto la conferma di una continuità nella originalità che emerge nelle parole e nei gesti di Francesco. Ieri, ad esempio, alla già nutrita lista delle citazioni e dei saluti al suo predecessore (culminati nel delicato pensiero di fargli gli auguri per l’onomastico, il 19 marzo scorso, nell’omelia della Messa di inizio ufficiale del pontificato) Papa Francesco ha aggiunto un riferimento alla «dittatura del relativismo», espressione spesso usata da Benedetto XVI, indicandola anche come possibile veleno dei rapporti tra gli Stati, oltre che tra gli uomini.
E allora, alla luce di queste tessere che si ricollegano in un unico mosaico di affetto cristiano e di alta considerazione, come dobbiamo definire il rapporto tra Jorge Mario Bergoglio e Joseph Ratzinger? Non certo all’insegna della discontinuità, come pure si è tentato di fare da parte di alcuni. È vero che lo stile personale è diverso, ma anche Benedetto XVI era profondamente diverso, nel carattere e nelle abitudini personali, da Giovanni Paolo II, eppure otto anni fa tutti capirono che si poneva nella sua scia. Allo stesso modo il Pontefice «preso quasi alla fine del mondo» ha dimostrato di avere nell’eredità spirituale e pastorale del suo predecessore un preciso punto di riferimento.
Dunque, anche oggi possiamo individuare importanti linee di continuità, la prima delle quali consiste nel costante e limpido riferimento di entrambi i Papi al Concilio Vaticano II. Non al Concilio 'virtuale' dal quale ci ha messo in guardia fino all’ultimo Benedetto XVI, ma al Concilio reale che Il teologo Ratzinger aveva vissuto in prima persona e il pastore Bergoglio ha messo in pratica nella Chiesa di Buenos Aires. E questo spiega anche perché una volta eletto Vescovo di Roma egli abbia subito sottolineato il suo rapporto con il popolo di Dio traducendo nei fatti quell’ecclesiologia di comunione che è uno dei lasciti fondamentali delle assise conciliari. La seconda linea di continuità è riscontrabile nella centralità della Croce. Benedetto XVI ce lo ha ricordato in tutti i modi, fino a porre il Crocifisso sull’altare di San Pietro durante la celebrazione eucaristica (scelta mantenuta anche dal suo successore). Papa Francesco si è presentato facendone sostanzialmente il suo programma. «Senza la croce siamo solo una Ong pietosa », ha detto ai cardinali il giorno dopo l’elezione. E questo fonda anche la terza e forse meno evidente, ma non per questo meno effettiva, linea di continuità. Grande è stata, infatti, l’eco di un’altra affermazione di valore programmatico – «Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri...» – pronunciata dal nuovo Pontefice nell’incontro con i giornalisti. Ma attenzione a non fare di questa frase il manifesto di un generico pauperismo.
Come ha ricordato anche il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, l’attenzione preferenziale della Chiesa agli ultimi della terra si basa sulla fede in Cristo, morto e risorto. Il nuovo Pontefice, poi, ha annunciato subito la volontà di continuare l’Anno della fede indetto da Papa Ratzinger. E non stupisce l’abbia fatto ponendo, già diverse volte, l’accento sulla verità cristiana, definendola «attraente e persuasiva perché risponde al bisogno profondo dell’esistenza umana», mentre «il pessimismo è del diavolo». Come non risentire qui l’eco del magistero ratzingeriano? Di quella parola «gioia», che tante volte è risuonata sulle labbra di Benedetto XVI e che avevamo imparato ad ascoltare con il suo tipico accento tedesco?
Infine, va segnalata la continuità su due grandi temi; la custodia o salvaguardia del creato e l’ecumenismo e il dialogo interreligioso. Chi ha seguito con attenzione l’omelia della Messa di inaugurazione del pontificato e il discorso rivolto il giorno dopo ai delegati fraterni e ai rappresentanti delle altre religioni non ha potuto non notare la consonanza profonda – e in alcuni passaggi anche lessicale – con il grande discorso di Benedetto XVI al Parlamento di Berlino e con l’incontro di Assisi, promosso da Papa Ratzinger a 25 anni dallo storico primo appuntamento voluto da Giovanni Paolo II. L’incontro di oggi sancisce dunque, anche visivamente, queste molteplici linee di continuità nella originalità. E dice a tutti che il posto del Pontefice emerito è non solo sul monte a pregare, ma anche nel vivo dell’esperienza pastorale della Chiesa, dove la sua grande eredità può produrre ancora molti frutti.
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