giovedì 10 ottobre 2013
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​Quasi trecento bare, alcune delle quali piccole e bianche, allineate in un hangar dell’aeroporto (soltanto lì, in un’isola che sulla carta geografica pare uno scoglio, si è trovato un posto abbastanza grande per contenerle tutte). Il primo impatto con Lampedusa di José Manuel Barroso ed Enrico Letta è stato il silenzio di questa folla di morti. A porte chiuse il presidente del Consiglio si è inginocchiato, davanti alla schiera di casse. È sembrato un atto fuori protocollo. Un gesto cristiano, che ancora sta nella memoria dell’Italia e dell’Europa. E, prima ancora, un gesto umano: nella inumanità di quei numeri tracciati sulle bare, di una ecatombe di miserabili cui la morte ha tolto anche, forse per sempre, il nome.Ha chiesto scusa, il presidente del Consiglio, delle inadempienze dell’Italia. Ha parlato a nome del Paese, addossandosi anche responsabilità di vecchia data; non cedendo ai distinguo consueti di certa sfinente politica, per cui la colpa è sempre di altri. Davanti a quasi trecento bare il cordoglio di Letta è suonato come quello dello Stato, entità in questi anni apparsa a momenti travolta dalle partigianerie. Nella tragedia, ci ha confortato sentire parlare a nome dell’Italia intera, e sentire a suo nome chiedere scusa. Ma da fuori, intanto, si alzavano le grida e i fischi di chi, sull’isola, comprensibilmente non crede più a presidenti e auto blu, di chi non si fida, perché da troppi anni a Lampedusa non cambia niente.

E adesso, cambierà qualcosa? È la domanda del giorno, il primo, in cui un’autorità comunitaria nella persona del presidente Barroso è arrivata qui, a questa latitudine quasi africana, a promettere che l’Europa non volterà le spalle. E il vicepremier Alfano ha dichiarato che per la prima volta ha sentito quest’Europa «vicina».Crederci? Da troppo tempo i palazzi di Strasburgo e Bruxelles sembrano fabbriche di normative senza un’anima, senza qualcosa di più grande che permetta all’Unione di essere tale davvero. Il governo italiano si è impegnato a fare dell’immigrazione un tema centrale della Ue, in particolare durante il suo semestre di presidenza nel 2014. Se davvero accadesse, la vicenda dello sciagurato barcone, con il suo carico di anonimi morti e straziati superstiti, segnerebbe finalmente una svolta, dopo vent’anni di comunitaria distrazione.Certo però, se l’Europa ha latitato, l’Italia resta con una legge in vigore che afferma il reato di "clandestinità". Chiunque entri senza i dovuti permessi è perseguibile, e i sopravvissuti di Lampedusa sono stati tutti, con inusitata celerità per i tempi abituali della nostra giustizia, indagati per "immigrazione clandestina". Enrico Letta ieri ha detto di provarne «vergogna».Si vedrà cosa si potrà e saprà fare concretamente, con questa strana maggioranza che su tali temi sembra ancora quasi antropologicamente divisa. Intanto, l’analisi dei flussi migratori nel Mediterraneo dice che sempre più i migranti fuggono da zone di guerra o destabilizzate, e devono quindi diventare oggetto di un trattamento "dedicato". Le emergenze africane e mediorientali bussano disperatamente alle porte dell’Europa, ai confini della Grecia e del nostro Sud. Il che vuol dire che prima d’essere, eventualmente, irregolari, questi uomini sono profughi. Può l’Unione e la sua più meridionale frontiera stringersi in una fortezza e badare solo a ben sorvegliare le sue mura?

Fortezza senza un cuore battente di senso, e di memoria delle sue radici, questa è la deriva possibile dell’Europa, allora avviata dal suo stesso vuoto al declino. Oppure si allarga lo sguardo oltre il Mediterraneo, e si affronta l’ora della storia con umanità e responsabilità. È possibile? Vorremmo poter sperare che quel sottile segnale di svolta c’è stato anche nell’inginocchiarsi di un capo di governo italiano davanti a tanti morti innocenti, e nel suo chiedere scusa. Mentre i sommozzatori recuperavano ancora un piccolo corpo, un neonato: figlio di guerra e di fame annegato come un topo in una stiva, figlio mendicante che l’Europa non avrà.

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