domenica 12 luglio 2009
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La buona notizia? L’Africa torna tra i grandi della politica. La cattiva notizia? Non ci sono altre notizie. L’e­sito dei summit, anche di quelli me­glio riusciti, va sempre preso con sag­gezza. Ed è basilare distinguere ciò che potrà durare da ciò che, magari anche nel bene, è destinato a passa­re. Un esempio: il G8 ha deciso di stanziare 20 miliardi di dollari per ga­rantire la stabilità alimentare dell’A­frica. Nella parte sub sahariana del continente, il 32% della popolazione (260 milioni di persone, dati Fao) sof­fre la fame, con un aumento dell’11,8% sul 2008. Molti degli affa­mati, e di certo i 'nuovi' affamati, pa­gano la corsa dei prezzi dei prodotti agricoli, innescata da speculazioni partite nei Paesi ricchi e poi aggra­vata da una crisi finanziaria tutta Oc­cidentale. Mantenere o aiutare gli in­digenti è ciò che passa, frenare i mec­canismi speculativi che si scaricano sui più deboli è ciò che resta. Ben vengano, dunque, i miliardi del G8 ma ancor più l’intenzione di punta­re meno sugli aiuti alimentari e più sull’agricoltura, affinché gli africani possano mantenersi da soli. Di esempi simili se ne trovano mol­ti. Tra pochi anni, almeno 100 milio­ni di africani (dati African Partner­ship Forum) soffriranno per man­canza d’acqua, sempre che non si realizzino gli scenari più pessimisti­ci sul riscaldamento del pianeta. Co­me provvedere se non passando, an­che, per un accordo globale sull’am­biente? E i 22 milioni di sieropositi­vi (sui 33 del mondo intero) dell’A­frica sub sahariana, con l’enorme potenziale di contagio che portano nel loro dramma? Come curarli se non passando, anche, per un accor­do globale sui diritti di sfruttamen­to dei medicinali? Oggi, però, il bisogno primario del­l’Africa è trovare un ancoraggio con il resto del mondo. Uscire dalla con­dizione di continente assistito e mar­ginalizzato e inserire la propria voce nel coro globale, ascoltando e fa­cendosi ascoltare. Sentirsi dire più spesso, come ha fatto ieri Barack O­bama nel discorso al Parlamento del Ghana: «Considero l’Africa parte fondamentale del nostro mondo in­terconnesso ». Principio importante perché consente poi di ricordare a­gli africani la responsabilità che de­riva dalla capacità. Con il suo talen­to per i gesti simbolici, Obama ha re­so omaggio alla democrazia ghane­se, ma al Kenia delle radici paterne ha riservato il ricordo di uno status economico un tempo florido e poi dissipato. Senza falsi buonismi ha detto che «il futuro dell’Africa spet­ta agli africani» e che «lo sviluppo di­pende dalla buona governance, in­grediente andato perso in troppi luo­ghi e troppo a lungo». Sedere al tavolo dei grandi, come al G8 il colonnello Gheddafi e altri lea­der africani, è già qualcosa. Sfrutta­re il traino dei Paesi emergenti (nel G14 c’è già il Sudafrica e l’Egitto è os­servatore) è già molto. Ma decisivo diventa che i Paesi sviluppati rifiuti­no il protezionismo e, anzi, mandi­no in porto i negoziati (il 'Doha Round') per aprire a tutti le rotte de­gli scambi commerciali, dando così all’Africa l’opportunità di giocare le proprie carte, offrire al mercato i frut­ti del proprio lavoro, sfuggire alla sor­te che già si profila: fare da riserva di materie prime e terre fertili per chi ne ha bisogno e può pagare, come India e Cina. Non si tratta di quattrini ma di vite. E di sviluppo nel senso più ampio del termine: politico, culturale (fino a quando il 62% dei 161 milioni di a­dulti analfabeti africani dovrà essere donna?), economico, persino sanita­rio. Lo sviluppo che nasce dal con­tatto e dalla contaminazione con l’e­sperienza altrui.
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