sabato 27 luglio 2013
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La stessa pistola. E non in senso metaforico, per indicare che i mandanti sono gli stessi o medesima la volontà di silenziare l’opposizione laica che in Tunisia contrasta l’islamizzazione dall’alto imposta al Paese. No, proprio la medesima arma, azionata – con tutta probabilità – dalla mano dello stesso assassino.
Una notizia che è destinata ad aggravare le tensioni già altissime, con le opposizioni indignate per l’omicidio di Mohammed Brahmi, che ricalca l’uccisione nel febbraio scorso di Chokri Belaid, ossia del leader più scomodo dell’opposizione al governo islamista di Ennahda. E come Belaid, anche Brahmi è stato freddato da un commando mentre usciva dalla sua residenza di Tunisi. Il governo ha subito condannato questa nuova uccisione, addossandone la responsabilità ai gruppi salafiti più estremisti, prima fra tutti la temibile organizzazione jihadista di Ansar al-Islam.
Non ci si attendevano parole differenti, ovviamente. Ma questo non assolve Ennahda e i ministri della sua coalizione: se la stessa pistola ha potuto sparare nuovamente è perché la polizia si è mossa con colpevole lentezza in questi mesi. Il cerchio si andava stringendo attorno ai presunti sicari di Belaid, dicevano le autorità, ma evidentemente la loro rete era piena di buchi, dato che essi non sono mai stati arrestati. E non sono mai stati silenziati i troppi esponenti della coalizione di maggioranza che aizzano le violenze, incitando all’azione contro i nemici dell’islam e contro i politici laici.
Certo, le condizioni di sicurezza tunisine risentono del caos che imperversa nel mondo arabo dopo il vento sollevato da queste deludenti primavere. Dalla Libia affluiscono armi a profusione, così come guerriglieri jihadisti si muovono dalle tante aree di tensione del Nord Africa. Ansar al-Sharia ha organizzato campi di addestramento per terroristi che le forze armate tunisine cercano di scovare e chiudere. Ma la delusione del dopo Ben Ali non si spiega solo così.
Ennahda è ancora lontana dal catastrofico fallimento dei Fratelli Musulmani in Egitto o dalla mattanza della guerra civile siriana, ma i segnali non sono molto incoraggianti. Anche perché il compito del partito islamico al governo a Tunisi sembrava meno difficoltoso: la sua ideologia appariva molto meno tetragona e radicale di altre formazioni islamiste; nel Paese non vi sono le forti lacerazioni e le enormi sacche di povertà dell’Egitto; non vi è la contrapposizione identitaria e religiosa della Siria.
E invece, non solo l’economia peggiora e non si sono avverate le promesse di una rapida re-distribuzione delle ricchezze, ma l’intero Paese è sempre più spaccato, contrapposto fra fazioni irriducibilmente ostili. E di questa deriva polarizzante Ennahda è pienamente responsabile: i suoi quadri dirigenti si stanno rivelando mediocri amministratori (come avvenuto del resto anche in Egitto) e i suoi leader incapaci di abbattere i muri della loro ideologia. Sempre più giovani tunisini li accusano di aver tradito la loro rivoluzione per imporre una interpretazione dogmatica che va stretta alla maggioranza di questo popolo. Lo sciopero generale, le proteste di chi assiste alle violenze e alle intimidazioni islamiste, la perdita di legittimità fra i cittadini che non si riconoscono nel loro governo non sembra averli fatti rinsavire.
Ennahda sembra incapace di capire che chi ha fatto la rivoluzione vuole libertà, lavoro, pari opportunità e non dogmi, limitazioni e restrizioni religiose. Si preferisce richiamare minacciosamente all’ordine o, come fatto in Egitto, farneticare di "complotti contro la nazione" per cercare di coprire i propri fallimenti. Lo scorso febbraio, il primo ministro Hamadi Jebali si dimise chiedendo al proprio partito di aprirsi a un governo di unità nazionale. Era quella probabilmente l’unica strada per salvare il fragile sistema post-rivoluzionario Ennahda ha scelto scientemente di non percorrerla. E tutta la Tunisia oggi ne paga il conto.​
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