Trump, i social e i doveri dei media
venerdì 7 agosto 2020

Che il rapporto tra Donald J. Trump e le piattaforme social sia decisamente teso, non è notizia di oggi. Già lo scorso maggio, Twitter aveva segnalato come "fuorviante" un post del presidente degli Stati Uniti d’America, mandandolo su tutte le furie. La novità è che ieri anche Facebook ha eliminato (per la prima volta) un post del presidente, per avere violato la politica contro la diffusione di disinformazione sul coronavirus.Ovvio, penserete: Trump è in guerra con i social e loro si vendicano.

La questione però non è così semplice e soprattutto non è solo americana. Perché il post in questione conteneva un video della rete Fox News in cui Trump affermava che i bambini sono «praticamente immuni» al virus. Per averlo diffuso su Twitter, l’account della campagna di Trump è stato bloccato, fino a quando non ha accettato di rimuovere il filmato. Anche YouTube ha annunciato di averlo rimosso per avere violato «le regole contro la disinformazione sul Covid-19».Insomma, dopo mesi nei quali le piattaforme social sono state accusate di non fare abbastanza contro le fake news qualcosa sembra muoversi. Il punto vero, però, è un altro. Ci arriveremo fra poco.

Dopo avere sottolineato che anche in questa storia il comportamento dei social è quantomeno curioso. Per esempio, perché sul canale YouTube di Fox News il video è ancora disponibile? E ancora: perché un post con la stessa tesi sostenuta ora da Trump, pubblicato a marzo dal Ceo di Tesla, Elon Musk, non ha subìto alcuna censura?L’aria nelle ultime settimane è indubbiamente cambiata. E questo (incongruenze di YouTube a parte) potrebbe anche essere un bene. Salvo portarci nel punto più importante: possiamo (e vogliamo) davvero lasciare nelle mani delle piattaforme la valutazione sulla veridicità di una notizia/affermazione e le decisioni conseguenti? Perché in questa storia non c’è in ballo solo la tesi (molto parziale e avventata) di Trump, ma il fatto che sia stata pronunciata in un’intervista tv. Sul canale all news, cioè di informazione generale, più visto in assoluto negli Usa. E senza alcun contraddittorio. Senza, cioè, che l’intervistatore o uno dei suoi ospiti alzasse la mano e dicesse: signor presidente, ma è sicuro di un’affermazione simile?

Facciamo per un attimo finta che pur occupandosi di questi temi, i cronisti ignorassero che secondo uno studio dell’Organizzazione mondiale della sanità su 6 milioni di infezioni analizzate la percentuale di bambini colpiti è del 4,6%. Facciamo pure finta. Ma dobbiamo lo stesso chiederci: a cosa servono i giornalisti, a cosa servono i media se rinunciano anche solo ad alzare la mano per porre dubbi e freni, solo perché magari l’intervistato è potente o magari è un "amico"?Ce lo siamo detti più volte: il mondo sta cambiando e molto velocemente. E il mondo dell’informazione ancora di più, a ritmi addirittura vertiginosi anche a causa dei social. Ma ci sono punti fermi che non possono e non devono cambiare. «Coi fatti – dicevano i vecchi cronisti – non ci si litiga». Non vanno nascosti e nemmeno ignorati. Ma mai come oggi la credibilità è tutto. E la si costruisce verificando i fatti e le opinioni con sempre più scrupolo. Facendosi guidare più dai dubbi che dalle certezze, dal dovere e non dalla piaggeria. Anche e soprattutto quando ci si trova davanti a una persona di potere.

Il nostro compito è alzare la mano, e quando serve anche la voce. Con garbo e fermezza. Chiedendo e richiamando ognuno alle proprie responsabilità. L’alternativa è lasciare (per stanchezza, per abitudine o per vigliaccheria) che a decidere cosa sia vero (e magari giusto) siano solo le piattaforme social. Con i loro algoritmi, la loro potenza di fuoco, e i loro interessi. Ma così facendo il ruolo dei media ne uscirà sempre più a pezzi. E non per colpa del digitale.

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