domenica 21 giugno 2009
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«I recenti avvenimenti in Italia, Malta, Cipro e Grecia dimostrano la necessità di aumentare gli sforzi per prevenire e combattere l’immigrazione illegale nei confini meridionali della Ue». Il passaggio chiave della dichiarazione sottoscritta venerdì dai leader dei 27 Paesi è stato salutato come una svolta nelle politiche comunitarie. Se un passo è stato fatto, non è ingeneroso sottolineare la miopia che caratterizza l’approccio delineato a Bruxelles, per impulso e con il plauso italiano. Nelle stesse ore in cui l’Unione europea preannunciava pattugliamenti comuni del Mediterraneo, respingimenti congiunti (e al largo della Sicilia 72 nigeriani venivano rimandati verso la Libia), da Roma la Fao diffondeva un dato in sé agghiacciante e capace di vanificare qualsiasi strategia di contenimento dei flussi umani che non sia la pura militarizzazione dei confini. Altri cento milioni di persone entro la fine dell’anno entreranno nella schiera enorme di coloro che non hanno cibo sufficiente o adeguato. Un miliardo e venti milioni di persone, un abitante su sei del Pianeta, avrà difficoltà a nutrirsi o porterà su di sé i segni di un’alimentazione carente. Non tutti moriranno di fame, certo; se questo può servire a placarci leggermente la coscienza di ben pasciuti abitanti del Nord del mondo. Ma sicuramente molti – i più giovani, i più intraprendenti, i più fortunati – non si rassegneranno all’esistenza grama cui sono condannati e partiranno alla volta di mete a settentrione o a occidente dei loro Paesi. Perché gli affamati della Terra sono per il 64% in Asia e per il 26% nell’Africa subsahariana. La crisi globale è ovviamente una delle cause principali che spinge la povertà a livelli (assoluti) mai raggiunti. La Fao, però, rimarca il previsto declino degli aiuti internazionali allo sviluppo come fattore che contribuisce a indebolire il settore agricolo, a rallentare la creazione di reti di sicurezza e schemi di protezione sociale. Sarebbe d’altra parte un’eccessiva mancanza di realismo non considerare che un’azione a breve termine, come gli accordi di rimpatrio (discussi e discutibili) sottoscritti con Gheddafi, abbia in pochi mesi svuotato i centri di accoglienza di Lampedusa. Se tutte le nazioni europee si faranno carico dei richiedenti asilo (non lasciando l’onere ai solo Paesi costieri che secondo il Trattato di Dublino hanno l’obbligo di ricevere le domande e di ospitarli), avremo un ulteriore alleggerimento degli ingressi. Tuttavia, in tempi più lunghi le rotte si modificheranno e l’ondata migratoria potrebbe perfino crescere, alimentata dall’emergenza ambientale che rischia di fare allontanare dai propri territori, minacciati da innalzamento delle acque o da desertificazione, 250 milioni di individui entro il 2050. Ecco allora la grave miopia: dimenticare che non solo abbiamo un obbligo morale di soccorrere chi è in condizioni peggiori delle nostre, ma anche che ciò serve a frenare l’arrivo alle frontiere del Vecchio Continente di masse in cerca di fortuna. Per convincere oggi un contadino affamato e frustrato a non prendere la perigliosa via dell’emigrazione non basteranno le frazioni di Pil che i 27 della Ue possono impegnarsi a devolvere. Eppure, se si finanzia lo sviluppo con generosità, lungimiranza e intelligenza, a lunga scadenza vedremo quell’investimento ripagato in termini di maggiore fioritura umana nei Sud del mondo, minori partenze e nuovi mercati per le nostre esportazioni. Forse il silenzio sugli aiuti nel nuovo piano europeo viene anche dal pudore. Proclami altisonanti recentemente non sono mancati. L’Italia fu tra le promotrici dell’annuncio di 21,5 miliardi di dollari per l’Africa fatta al G8 di Gleneagles nel 2005. Secondo l’organizzazione One, la percentuale di aumento dei nostri fondi, in quattro anni, è stata del 3 (tre) per cento. Se solo 7 miliardi sono arrivati nel continente, la responsabilità graverebbe per l’80% su Roma e Parigi. Che sia la Ue o il nuovo G8, con la giustificazione obiettiva della crisi in corso, non vorremmo che sia ormai passato il tempo delle promesse. E che le politiche migratorie europee rivelino presto la loro insufficienza.
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