venerdì 6 marzo 2009
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Dalla crosta di quel buio e tragico universo che nasconde la tratta di esseri umani e l’immigrazione clandestina che non si esaurisce certo dopo la traversata di un infuocato deserto libico o di un agitato braccio di mare - capace con uno schiaffo d’onda di sbarazzarsi di una fragile barchetta e di tante vite umane - affiorano ancora storie di sofferenze e privazioni che non smettono di ferire. Nei tanti occhi di quanti affidano la loro vita, e i loro risparmi, a chi organizza e controlla i viaggi della speranza e della disperazione, non c’è solo la consapevolezza dell’incognita per quello che potrà accadere lungo un tragitto fatto di incertezze, privazioni, solitudine, malattie, maltrattamenti e schiavitù. Perché anche dopo, quando ci si illuderà di avere solcato il traguardo, di essere un centimetro più in là di tutte quelle fatiche, ferite o anche lutti, ecco che allora ci si troverà ancora vittime e prede di umilianti intimidazioni. Segregazione e violenze che rasentano la tortura e il degrado, inflitte spesso dagli stessi connazionali che controllano il business della disperazione e che pur di soddisfare la bramosia di guadagno, non si fermano neppure davanti agli occhi smarriti di un bambino. Come lupi affamati che si accaniscono sui resti della preda morta di stenti. Fa paura quello che hanno scoperto i carabinieri in Calabria, Sicilia, Lombardia ed Emilia Romagna, dopo un’inchiesta che ha scoperchiato i meccanismi di un gruppo criminale «transnazionale e organizzato in cellule con referenti anche in Italia»: non si accontentava di incassare soldi dai viaggi della speranza, ma arrotondava i suoi sporchi affari anche con il sequestro degli stessi immigrati una volta che questi erano giunti in Italia. Due volte vittime, quei disperati: da rimettere in libertà solo dietro il pagamento di un «altro» riscatto. Subito dopo che le carrette del mare salpavano dalla costa della Libia, traboccanti immigrazione e paura, il messaggio dei trafficanti rimbalzava in Italia: i «tonni», le «valigie», i «pomodori», sono partiti. Un codice utilizzato non solo per comunicare che donne somale col pancione di nove mesi, neonati eritrei, adolescenti egiziani non accompagnati, uomini nigeriani o sudanesi in cerca di rifugio politico o di un lavoro, che si portavano appresso il loro desiderio di raggiungere l’Europa, stavano arrivando. Quel gergo senza cuore, usato per indicare anche vite umane mai approdate da noi, ma andate a fondo con il loro sogno, era il modo per indicare che il «pacco» andava preso in consegna dall’organizzazione criminale «reticolare multietnica e molto pericolosa», capace di gestire tutte le fasi di quella immigrazione, a cominciare dalla «raccolta» dei migranti nei vari Paesi d’Africa, per arrivare alla loro eventuale fuga dai centri di accoglienza in Italia. Ignobili trafficanti che non si limitavano a incassare le quote pro capite di ogni viaggiatore, tra i 1.500 e i 4.000 euro. E pensare che nel 2008 più di 30.000 migranti sono sbarcati in Italia. Il Reparto operativo dei carabinieri ha scelto il nome di «Operazione Addhìb». Inchiesta partita nel 2005 sulla strada dei clandestini, seguendo anche alcuni contatti con la pista del terrorismo internazionale. Ma che è finita col portare nella tana di un altro «lupo»: perché questo significa «Addhìb».
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