Tornare apprendisti dei «mestieri» narranti
sabato 30 maggio 2020

La voce narrante di “Novecento”, il monologo di Alessandro Baricco, poi diventato anche un film del regista premio Oscar Giuseppe Tornatore, a un certo punto sostiene: «Non sei veramente fregato finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla». Un’affermazione che, sia pure a suo modo, riafferma la natura relazionale dell’uomo e dunque può fornire spunti di riflessione sul Messaggio del Papa per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che abbiamo appena celebrato, dedicato proprio al tema della narrazione, dietro il quale, scrive Francesco, spesso si rivela «l’intreccio dei fili coi quali siamo collegati gli uni agli altri».

La prima consapevolezza che il testo del Papa richiede è dunque che «l’uomo è un essere narrante» e che le storie – con qualunque mezzo narrate (fiabe, romanzi, film, canzoni e notizie) – influenzano la nostra vita «anche se non ne siamo consapevoli». Sono punti che richiedono grande attenzione. Perché se è vero – come è vero – che solo le «buone storie» hanno capacità “salvifica” (si pensi alla Sacra Scrittura, «storia di storie», e al Vangelo in particolare), è altrettanto vero che non tutte le storie oggi narrate lo sono. Anzi, come scrive senza mezzi termini Francesco, «spesso sui telai della comunicazione, anziché racconti costruttivi, che sono un collante dei legami sociali e del tessuto culturale, si producono storie distruttive e provocatorie, che logorano e spezzano i fili fragili della convivenza ». Si pensi ad esempio a come di solito viene rappresentata la famiglia naturale fondata sul matrimonio tra uomo e donna. Siamo proprio sicuri che non ci sia alcuna correlazione tra queste rappresentazioni e le tante crisi famigliari del nostro tempo?

Ma le «buone storie» non nascono da sole. Richiedono romanzieri che sappiano concepirle e scriverle, sceneggiatori e registi che sappiano tradurle in film e fiction, musicisti e poeti (o anche “cantautori”) che sappiano trasformarle in canzoni, giornalisti che sappiano riportarle con verità nei loro articoli, anche pittori e scultori, se si vuole, che sappiano narrare per immagini, come avviene anche attraverso i fumetti. Ed è altrettanto evidente che ognuno di questi narratori, indipendentemente dal livello artistico raggiunto, trasmetterà con le sue storie la propria antropologia di riferimento. Quanta differenza tra certi racconti e quelle «appendici di Vangelo», come le chiama il Papa, che sono “I Promessi Sposi” o “I Fratelli Karamazov”.

Ma proprio questo deve indurre a interrogarci. Perché il grembo materno delle nostre comunità ecclesiali sembra essersi quasi del tutto isterilito rispetto a tali figure e “mestieri”? Perché i mondi di riferimento della grande maggioranza di scrittori, registi, sceneggiatori, cantautori, poeti e narratori in genere sembrano distare anni luce dai valori più propriamente evangelici? Manzoni e Dostojeski potevano contare su un humus sociale, civile e religioso, che li ha nutriti proprio come un latte materno. Ma anche oggi esempi come il don Matteo televisivo testimoniano che, pur in condizioni diverse e per certi versi più difficili, non è del tutto impossibile realizzare progetti di larga fruizione, culturalmente ispirati all’antropologia cristiana.

Non si tratta tanto di dare patenti o di istituire scuole, ma di ripensare la qualità complessiva della formazione (anche catechistica, ovvio), per dare ai giovani quelle chiavi di senso che spesso essi vanno a cercare nei versi sgangherati dei trapper e non nella poesia immensa dei salmi, nelle immagini splatter di certi film e non nelle storie forti della Bibbia e della grande letteratura, tanto per fare degli esempi. Il Papa nel suo messaggio scrive a tal proposito: «Anche quando raccontiamo il male, possiamo imparare a lasciare lo spazio alla redenzione, possiamo riconoscere in mezzo al male anche il dinamismo del bene e dargli spazio ». È esattamente ciò che hanno fatto nel loro tempo Manzoni e Dostojewski. Ed è per questo che anche nel nostro le loro opere continuano a parlare. Perché alla fine dei conti il confine tra una buona e una cattiva storia sta nel modo di raccontarla. Quel fattore umano che è l’autore, cioè narrazione di un vissuto esso stesso. E che non bisogna mai scordarsi di curare adeguatamente.

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