venerdì 18 settembre 2009
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Dal fronte arrivano bollettini di guerra. Oggi in tempo reale, con le immagini strazianti dei caduti. E dall’Afghanistan ieri è arrivato il dispaccio peggiore per l’Italia dall’inizio, nel 2002, del suo impegno per costruire la pace a Kabul. Sei militari del 186° reggimento della Brigata Folgore sono caduti nell’attacco kamikaze rivendicato dai taleban, e altri quattro sono rimasti gravemente feriti. Il sacrificio dei nostri soldati, la sofferenza delle loro famiglie, lo sgomento del Paese sono il primo fatto da onorare e da enfatizzare. Giovani vite stroncate da un odio cieco, storie che in queste ore scopriremo umili ed esemplari, esistenze lontane dai riflettori e dalle effimere celebrità che solo nel lutto, come dopo Nasiriyah, emergono nella loro statura agli occhi della nazione. Missione di pace, la loro. Ma anche di guerra, ormai. Abbattuto uno dei regimi più oppressivi e contrari all’idea stessa di civiltà, che aveva spalancato le porte ad al-Qaeda e permesso l’addestramento dei terroristi dell’11 settembre, per l’Afghanistan sembrava aprirsi una fase di ricostruzione materiale e morale, con il supporto militare e civile dell’Occidente. Gli italiani sono efficienti e sanno farsi volere bene. Nostri esperti hanno collaborato alla rifondazione del sistema giudiziario; le nostre forze cercano di garantire sicurezza e stabilità, ma portano anche aiuti e realizzano opere di pubblica utilità. L’impegno per la popolazione locale è la cifra della presenza a Kabul e a Herat. Eppure, oggi, siamo qui a piangere davanti alle salme di sei valorosi soldati, presi a bersaglio per una mattanza che ha coinvolto anche decine di cittadini inermi. Il tentativo di puntellare una fragilissima democrazia si scontra con l’ostinata resistenza di un coagulo di radicalismi religiosi islamici, di mire geo-politiche esterne e di interessi economici legati alla droga. Gli errori iniziali di gestione da parte degli Stati Uniti, i bombardamenti fuori bersaglio della Nato e le storiche rivalità tra gruppi etnici hanno contribuito a rallentare il cammino verso la pacificazione del Paese. Fino al punto di far intravedere un ribaltamento della tendenza, un nuovo sprofondare nel caos se non si porrà un atto qualche aggiustamento di strategia. Gli Stati Uniti chiedono più uomini in armi all’Europa, che vede quotidianamente crescere le sue perdite – oltre 200 quelle inglesi, 21 quelle italiane. Non cediamo alla logica del terrore disse il Paese stretto alle sue vittime irachene nel novembre del 2003, in un sussulto di orgoglio patrio. Vale la pena di presidiare Kabul?, possiamo chiederci adesso. Serve inviare più uomini nel pantano afghano? Il dubbio arrovella perfino l’America. Sì, anche per rispetto dei coraggiosi caduti di ieri, sembra la risposta obbligata sotto l’effetto dei sentimenti. E di motivi ce ne sono altri, sebbene l’idea che l’ex regno dei taleban diventi una Svizzera d’Asia vada attualmente ben oltre il libro dei sogni. Va evitato il collasso della regione e il ritorno del Paese a santuario della rete di Benladen, non dando l’impressione ai fondamentalisti che le grandi democrazie siano deboli e arrendevoli. E, prima di ogni altra cosa, si può e si deve stare a fianco della popolazione afghana che sinceramente aspira a vivere fuori dall’incubo di una guerra permanente. Per questo è necessario stringersi attorno ai nostri soldati, e ragionare con freddezza, perché più vacillerà la convinzione di mantenere l’impegno in quel Paese, maggiore sarà la tentazione dei terroristi di colpire gli italiani per scardinarne la determinazione. Rimanere costerà altre sofferenze e altri lutti, inutile illudersi, Ma rinunciare lascerebbe campo libero a coloro che alla violenza invece non rinunceranno.È tragico il prezzo che stiamo pagando per la difesa del modello di civiltà affermato dalla carta dell’Onu. E risulterà insopportabile se non si saprà, in Parlamento e al cospetto dell’opinione pubblica, affrontare con la necessaria chiarezza i nodi del "come restare" a Kabul. Il miglior modo per onorare sei valorosi italiani e non tradirne il sacrificio.
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