martedì 16 luglio 2013
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Asia Bibi, 42 anni, madre di due figli, sta per compiere 1.500 giorni di car­cere. Quasi l’ottava parte della sua vita. E mentre ciò avviene, a più di 4 anni dal­­l’arresto e a più di 3 anni dalla condanna a morte in base alla legge del Pakistan sul­la blasfemia, una serie di fatti drammati­ci viene a ricordarci in quali condizioni debbano vivere milioni di cristiani in va­ste regioni dell’Asia. Nello stesso Pakistan (e nella stessa provincia del Punjab di cui è originaria Asia Bibi), un ragazzo è stato condannato all’ergastolo, di nuovo in ba­se alla legge sulla blasfemia. Sajjad Masih avrebbe mandato una serie di messaggi insultanti per l’islam dal cellulare di una ragazza che non aveva accettato di pren­derlo in sposo. In India, nello Stato dell’O­rissa, un pastore protestante è stato ucci­so e la sua morte, con la complicità della polizia locale, fatta passare per incidente. Ancora in India, nel Tamil Nadu, una gio­vane suora è stata rapita, tenuta prigio­niera per una settimana e ripetutamente violentata da un gruppo di uomini mu­sulmani, tra i quali alcuni parenti. br> Sono vicende intricate, divise dalla geo­grafia e complicate da dinamiche di gruppo e di clan non sempre fa­cili da decifrare. Ma non faccia­moci ingannare. Intanto, questi e­pisodi si ripetono con una fre­quenza che cancella ogni dubbio. È ancora fresco il ricordo, per re­stare al Pakistan, di Rimsha Masih, l’adolescente che l’anno scorso fu arrestata con la solita accusa di bla­sfemia e falsamente accusata di a­ver bruciato pagine del Corano. E­ra il lurido complotto di un imam che voleva in quel modo impa­dronirsi di una proprietà della fa­miglia Masih. L’imam è finito in prigione, ma la famiglia di Rimsha ha dovuto trasferirsi addirittura in Canada per poter vivere in pace. E in India stanno per scoccare i cin­que anni dai tumulti in cui gli e­stremisti hindu uccisero decine di cristiani e diedero fuoco a centi­naia di loro case e chiese. br> C’è un filo rosso che tiene insieme queste tragedie, e si chiama cri­stianesimo. Queste persone ven­gono accusate, picchiate o uccise non per ciò che fanno, ma per ciò che sono. La legge sulla blasfemia del Pakistan, come le ricorrenti ac­cuse per le conversioni al cristia­nesimo in Orissa, che mettono in crisi non la fede degli hindu ma il lucroso sistema delle caste, sono solo strumenti, arnesi per colpire. Questi o altri non farebbero diffe­renza, perché l’elemento decisivo è il livello di accettabilità sociale di cui la persecuzione dei cristiani è circondata. Aggredirli è lecito, an­zi: è un auspicabile segno di fedeltà alla comunità di appartenenza. Lo dimostrano le complicità che sem­pre circondano questi casi, la malafede delle autorità, il culto della violenza con­tro chi è 'altro' dalla maggioranza che spi­ra dalle parole di fin troppi esponenti re­ligiosi. br> Non sono situazioni senza speranza, an­che la causa della tolleranza ha avuto le sue pagine luminose e i suoi martiri. Lo Stato dell’Orissa fu il primo in India ad ap­provare, fin dal 1967, una Legge sulla li­bertà di culto moderna e avanzata. La cau­sa di Asia Bibi, in Pakistan, è costata la vi­ta a Shabhaz Batti, ministro (cattolico) per le minoranze, e a Salmaan Taseer, gover­natore (musulmano) dello Stato del Punjab. Le testimonianze dunque non so­no mancate. Sono i fatti che mancano, i provvedimenti, le azioni concrete. È que­sta la sfida su cui impegnare i fin troppi governi che latitano (sino alla complicità coi persecutori) al momento di garantire i normali diritti civili e la giusta protezio­ne alle minoranze etniche o religiose che vivono sotto la loro giurisdizione. Almeno finché la politica internazionale non sarà ridotta a mero sinonimo di commercio e i rapporti tra i popoli gestiti come una qua­lunque partita doppia. ​
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