giovedì 24 marzo 2016
Sfida di sicurezza, ma l'Europa non è in guerra
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Non siamo in guerra. Anche se lo dicono e scrivono quasi tutti. Ma non siamo in guerra. Nonostante gli edifici sventrati, i morti per terra, il sangue che trasuda – spesso in modo morboso, per un click in più – dalle foto sui siti internet. Ma non siamo in guerra. C’è chi lo dice per metafora – come la celebre e disastrosa “guerra al terrore” – e chi per convinzione, convinto che si debba mobilitare l’esercito contro un nemico che i nostri soldati possono sconfiggere. Chi auspica che le nostre forze militari facciano strage di nemici in terre lontane e chi spaccia populismo, vagheggiando nuovi ghetti presidiati e controllati per i musulmani in Occidente. Ma la verità è che l’Europa non è in guerra. Il continente vive in questi anni la sua più drammatica e preoccupante sfida di sicurezza, ben più pericolosa e strutturata delle tante stagioni del terrorismo che ha dovuto subire (da quello indipendentista di Eta e Ira, a quello degli opposti estremismi rossi e neri). Una crisi amplificata da una lunga catena di errori di valutazione e da decisioni sciagurate, prese da alcuni stati dentro e fuori l’Unione. Come – solo per fare qualche esempio recente - la fretta di Francia e Gran Bretagna nell’abbattere militarmente Gheddafi (più per mettere le mani sulle risorse e sulle commesse libiche che per altro). O come la criminale ambiguità dei nostri alleati mediorientali (Arabia Saudita e Turchia in testa), che hanno a lungo flirtato con il terrore jihadista per i loro obiettivi geopolitici regionali. Per non parlare della nostra incapacità nel capire le dinamiche di estraniamento di una parte dei musulmani europei, il fallimento delle politiche di acculturazione, i patti meschini e inconfessati fatti a volte fra le forze di sicurezza dei singoli paesi europei e le frange dell’estremismo islamico (“io ti lascio fare ma tu non fai nulla di male nel mio territorio”). Una crisi di sicurezza che esige anche una risposta militare e repressiva: non c’è dubbio che Daesh debba essere sradicato, riprendendo i territori che il califfato del terrore si è ritagliato in Siria e Iraq. E dunque va usata anche la leva militare. Ma questo non significa essere in guerra. Nel senso che la nostra società non deve adottare “il codice di guerra” nel suo vivere quotidiano. Non vogliamo la sindrome da rifugi anti-atomici o delle sirene che nella seconda guerra mondiale annunciavano gli attacchi aerei. Non vogliamo il “taci, che il nemico ti ascolta”. Non vogliamo cucire le “mezzelune gialle” sui vestiti dei musulmani europei per renderli identificabili. Non vogliamo che si giri armati per le strade, come sostengono i fanatici delle armi americani. Non vogliamo i locali vuoti la sera per timore del nemico. Non vogliamo leggi draconiane in nome del Terrore. Lo strumento repressivo per vincere la “non-guerra al terrore”, in realtà, passa meno per i carri armati e più per la prevenzione. L’attività di intelligence, innanzitutto, che deve crescere di qualità – integrandosi maggiormente a livello europeo – per individuare le minacce terroristiche mentre si vanno formando, permettendone la repressione preventiva da parte delle forze di polizia. Ma soprattutto tramite un’azione di lungo periodo che agisca sui piani politici, culturali e identitari. Avviando politiche coordinate di de-radicalizzazione e contro-radicalizzazione, stimolando le autorità religiose islamiche a sfrondare l’interpretazione religiosa da ogni giustificazione della violenza in nome di Dio, creando sistemi di “early warning” (sistemi di allarme preventivo) che richiedono la cooperazione delle comunità islamiche. I cui membri devono capire che non è più tempo di distinguo o di giustificazioni alla violenza. Divenendo così i nostri primi alleati contro il terrorismo islamico, non i nostri primi nemici. Uno sforzo vicendevole che certo non appare facile. E non impedirà altri attacchi e altri morti nel breve e medio periodo. Ma per quanto intimoriti e addolorati per i nostri morti innocenti non concederemo al terrore il lusso di considerarlo un “nemico alla pari”. E’ solo un’infezione che va debellata prima che ci avveleni. Ma noi no, non siamo in guerra.
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