mercoledì 4 febbraio 2009
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Oggi il professor Vittorino Andreoli si congeda dal suo viaggio «attorno» alla figura del prete. È stato una sorta di «pellegrinaggio laico», acuto e appassionato, nel quale a colpirmi di più era di vol­ta in volta la risposta di un numero elevato di letto­ri, le cui testimonianze riempivano oltre metà del­lo spazio dedicato ogni mercoledì all’iniziativa. Non sono certo, tuttavia, che proprio tutti abbiano com­preso il senso di questo percorso. Perché lasciare che la figura del sacerdote venga cannibalizzata da chiacchiericci spacciati per inchieste giornalistiche e da libri di dubbia qualità e oscura finalità, nel si­lenzio e nell’imbarazzo di chi per il prete prova stima, a prescindere dalla propria partecipazione alla vita ec­clesiale? Non possiamo nasconderci che pro­prio attorno al profilo del sacerdote si sta giocando oggi una partita decisi­va per la nostra cultura. È come se sul­le sue spalle si volessero scaricare quelle che vengono ritenute le aporie e le contraddizioni insanabili del cri­stianesimo nel suo rapporto con la modernità. Come a voler dimostrare che essere cristiani sul serio, nella fe­deltà delle consegne, è impresa tal­mente ardua da risultare impossibile. Ecco perché in questo dibattito non possiamo mancare. Il prete non è una figura qualunque della fede: in qualche modo essa appartiene a ciascuno di noi. Per questo mi commuovevo ogni volta che Andreoli ripeteva: io amo i preti. Perché anch’io li amo. E non per qual­che motivo legato alla mia attività, e neppure – sarò sincero – perché mi sia sempre andata bene con cia­scuno di loro. Li amo piuttosto perché la mia fede è 'mediata' dal loro ministero. E se amo il prete, de­vo amare anche il suo mistero. Affermare ad oltranza che il sacerdote «è uno di noi», e lì fermarsi, credo ci conduca fuori strada. Solo infatti se diamo spa­zio al prete per quel che nella fede egli è, siamo in grado di percepire realmente il mistero del battesi­mo in cui siamo vitalmente inseriti. Un’idea, questa, che mi è parso un giorno di com­prendere meglio raccogliendo la confidenza di un sacerdote ormai dispensato, che si stava organiz­zando la vita a prescindere dal ministero. Aveva un cruccio: non riusciva a partecipare all’Eucarestia domenicale senza – col pensiero – stendere al mo­mento della consacrazione la mano, come per con­celebrare. E ne soffriva. Finché, ad un corso di e­sercizi, si confidò col cardinal Martini, ricevendo al­l’incirca questa risposta: «Quell’assemblea cristia­na non ti chiede questo servizio, c’è già all’altare chi consacra e spezza il pane. Il tuo gesto non serve a quei fedeli». Prete per noi, prete per me. Ecco perché non posso non pensare al prete. Ed ecco perché tutti dovrem­mo preoccuparci di più del futuro prossimo: stiamo procedendo, temo spensieratamente, verso il bara­tro di un’assenza di preti quale per secoli la nostra terra mai aveva conosciuto. Come sa­ranno dopo le nostre comunità? Le no­stre città? Le terre che abbiamo fin qui servito? Ha senso allora, eccome, riuscire a me­glio comprendere qualcosa della vita del sacerdote. E averne a cuore le i­stanze, i problemi. Il sovraccarico di la­voro, dunque lo stress; la solitudine co­me difficoltà relazionale rispetto ai con­fratelli, al vescovo avvertito magari lon­tano, agli uffici di curia astratti e neoau­toritari; e la delusione che talora mi­naccia di subentrare, con un inquie­tante senso di svuotamento… Una confidenza: in questi ultimi mesi ho personalmente ricevuto email di sa­cerdoti che mi hanno fatto molto pen­sare. Magari erano arrabbiati perché condividevano poco o nulla di quel che avevano let­to sul giornale, ma la loro pretesa per quanto circo­scritta, è per me un allarme. Davvero siamo tutti consapevoli di quella che è la posta in gioco nell’e­quilibrio richiesto ad ogni sacerdote? I fedeli laici a questo punto penseranno che loro possono farci poco. E invece no, in realtà possono e possono abbastanza in termini di vicinanza affet­tuosa, di offerta di collaborazione stabile ma anche occasionale; di discrezione ed interesse fraterno, mai invadente, mai soffocante; di disponibilità di amicizia non sostitutiva di null’altro che dell’ami­cizia. Certa vulnerabilità dei preti mi riguarda. E mi fa sen­tire responsabile. Dal loro equilibrio e dalla loro ma­turità molto dipende del benessere complessivo. Lo so, è un discorso da continuare, e che anche qui riprenderemo. Ripetendoci sempre, senza stancar­ci: noi vogliamo bene ai nostri preti. (d.b.)
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