giovedì 23 luglio 2009
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Di una cosa, purtroppo, possiamo stare certi: nel 2011 l’Italia celebrerà i suoi 150 anni dall’Unità e dovrà prendere atto che la sua più grande questione nazionale, ovvero il divario Nord-Sud, sarà ancora lì a denunciare il fallimento politico-sociale­culturale di intere generazioni. I dati allarmanti della Svimez hanno giustamente messo in luce come la questione meridionale, oggi, abbia il volto soprattutto dei giovani che prendono mestamente la via del Centro-Nord con il computer nella borsa e in tasca una laurea presa a pieni voti. Vanno dove c’è la certezza di uno straccio di lavoro. Ma fra quei settecentomila che in undici anni, dal 1997 al 2008, hanno lasciato il Sud, ci sono anche tanti diplomati e semplici operai. Tanta gente comune che ha preferito allontanarsi per esercitare un semplice diritto, quello al lavoro, che è garanzia minima di futuro. Il fatto che più dovrebbe allarmare le classi dirigenti del nostro Paese ha un nome terribile: recessione. Per sette anni consecutivi il Mezzogiorno è cresciuto meno del Centro-Nord. E si aggiunge, con amarezza, «cosa mai avvenuta dal Dopoguerra a oggi». Eppure questo semplice, gelido fatto, non riesce a smuovere le leve della politica. Che magari punta a ricostruire un nuovo blocco sociale meridionale capace di intercettare maggiori risorse pubbliche. Ma se il vecchio blocco «agrario-edile-urbano» ha esaurito definitivamente la sua spinta, all’orizzonte sembra profilarsi una casta di notabili pronti al riciclaggio politico. Noi che siamo convinti che non ci sia possibilità vera di sviluppo al di fuori della forza propulsiva dei singoli e delle comunità territoriali, non possiamo però sottovalutare quanto le cifre denunciano: il Pil prodotto al Sud nel 2008 ha raggiunto solo il 23,8% del prodotto nazionale, ai livelli del 1951 (23,9%). Per chi, come scrive, è nato nel 1953 e ha avuto l’avventura di nascere e vivere a lungo nel Sud, di aver lavorato al Nord, di aver seguito da giornalista agli esordi della professione la questione meridionale, di aver assistito alla scomparsa dell’Intervento straordinario e di aver scommesso persino sul federalismo fiscale come strumento di riscatto delle classi dirigenti meridionali, occorre ripartire da questo dato drammatico, ovvero la regressione del Sud agli Anni Cinquanta. Chi frequenta il Sud ne conosce le zone d’eccellenza e la qualità umana delle popolazioni, insieme però con le sue ombre e il suo fatalismo. Ne apprezza la capacità di stare al passo con il resto del Paese in tanti settori, ma ne verifica i ritardi insostenibili nella gestione pubblica. E soprattutto impara a conoscere presto l’arte della sopravvivenza, che non è l’assistenzialismo, ma la cessione di una parte dei propri diritti di cittadinanza, in nome di un’elemosina sociale. Ora è assolutamente urgente che nasca un nuovo movimento di popolo, accompagnato da una forma nuova di rappresentanza. Promuovere un nuovo meridionalismo che faccia i conti soprattutto in casa propria è assolutamente prioritario. È necessario ricordare che prima sono nati Giustino Fortunato, Manlio Rossi Doria e Pasquale Saraceno, e poi è venuto l’Intervento straordinario? Che prima sono apparsi sulla scena pubblica Gianfranco Miglio, Umberto Bossi e Giulio Tremonti e poi sono venute la Lega e la questione settentrionale? Ci sono solo due anni di tempo. Altrimenti nel 2011 celebreremo, piuttosto, l’anniversario della disunità d’Italia. Quella vera, quella più cruda. Perché se per fortuna non sono all’orizzonte né la secessione del Nord né una qualche forma di divisione istituzionale e politica, sta di fatto che permane la peggiore delle disunità: quella fattuale. Quella più drammatica e insostenibile, quella che ogni giorno fa sentire i meridionali cittadini di serie B in uno Stato che a parole si dice unitario, ma che subisce per sette anni la secessione morbida del Sud sotto la spinta inesorabile della recessione. È inutile sottolineare che in qualunque altro Paese democratico uno stato di cose come questo sarebbe già causa di tensioni sociali e politiche drammatiche. Ai meridionali oggi, invece, basta la speranza di poter emigrare. Ma questo non deve spegnere la nostra indignazione e la nostra voglia di reagire.
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