giovedì 1 novembre 2012
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​Franz Kafka, che in America non c’era mai stato, immaginava che la Statua della Libertà impugnasse una spada al posto della fiaccola. Ma anche Paul Auster, che tra Brooklyn e Manhattan è di casa, non è tenero verso New York. In uno dei suoi romanzi più celebri, Città di vetro, le strade della metropoli sembrano nascondere un messaggio cifrato, che allude ai vizi e ai peccati dell’antica Babilonia. Altri agglomerati urbani l’hanno ormai superata per vastità e popolazione, eppure New York continua a essere la Città-Mondo, nella quale puoi trovare di tutto (dal sushi verace al miglior melodramma italiano) e purtroppo tutto trovi (da Cosa Nostra alle triadi cinesi). La si ama o la si odia, eppure in un caso come nell’altro il sentimento è sempre accompagnato da un’ammirazione istintiva, che spiega almeno in parte lo straordinario interesse con cui è stata seguita in questi giorni l’evoluzione dell’uragano Sandy. La tempesta ha investito gran parte della Costa orientale, provocando ovunque danni, lutti e distruzione. Per l’opinione pubblica occidentale, però, c’è una sola vittima, e quella vittima è New York.Sono i meccanismi – o, meglio, le cattive abitudini – dell’informazione, purtroppo comprensibili anche quando risultano ingiusti, come in questo caso. Perché Sandy non si è abbattuto solo su New York, tanto per cominciare. E poi perché cataclismi dal bilancio ancora più drammatico si sono susseguiti negli ultimi mesi in regioni assai meno à la page: le Fillippine, l’Azerbaijan, la Nigeria, il Pakistan. Ricordate quel film di qualche anno fa, Cronisti d’assalto? Riunione di redazione in un quotidiano della Grande Mela, ogni settore presenta le notizie del giorno e quando tocca alla responsabile degli esteri ecco che si iniziano a snocciolare eccidi e catastrofi, aggiungendo ogni volta la debita precisazione: «Tot morti, nessuno di New York». In un certo senso, è quello che sta accadendo anche in queste ore, ma non è detto che non sia una buona occasione per ribaltare una prospettiva altrimenti consolidata.Nella vocazione della Città-Mondo, infatti, è insito il mandato a rappresentare il mondo intero. Proprio nel momento in cui vengono spente da un diluvio privo di ogni precedente, le famose «mille luci» esaltate da un altro libro famoso potrebbero prestarsi a illuminare tante sciagure che passano di norma tristemente inosservate. Potrebbe accadere perché una parte del fascino di New York risiede per l’appunto nella consapevolezza della propria fragilità, quasi un retropensiero che la metropoli coltiva da sempre. Scommessa grandiosa di convivenza tra culture diverse, New York è il luogo in cui il motto degli Stati Uniti, E Pluribus Unum, passa dall’utopia alla pratica, in una partita che rischia di essere perduta in ogni momento, come ogni newyorkese sa bene, ma che merita di essere giocata fino in fondo. Non è un caso, infatti, che scrittori e cineasti abbiano fatto a gara nell’ipotizzare tanti modi diversi in cui la Città-Mondo sarebbe destinata a cadere, salvo essere poi superati dall’orribile inventiva dei terroristi dell’11 settembre.Oggi che, a undici anni di distanza da quell’attentato, New York torna a mostrarsi ferita ma non umiliata, attonita ma ancora una volta disposta a investire sul sogno impossibile da cui è nata, il modo migliore per riconoscere la dignità di questa capitale consiste forse nell’allargare lo sguardo per rendere omaggio anche alla sofferenza silenziosa di tante altre regioni del pianeta. New York è tutto il mondo, d’accordo. Ed è per questo che tutto il mondo merita l’attenzione che di solito destiniamo a New York.
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