martedì 7 giugno 2016
Non ci sono più dubbi sulla ormai consolidata natura tripolare del nostro sistema politico (Pd, M5s, ex area berlusconiana) e sull'assenza di un “padrone". (Marco Tarquinio). COMUNALI Prime manovre verso i ballottaggi I Sorprese dalle urne nelle grandi città I IL PREMIER Renzi deluso: non sono contento IL CASO Dopo 10 anni a Platì torna il sindaco
Elezioni: l'Italia dei tre poli
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Non ci sono più dubbi sulla ormai consolidata natura tripolare del nostro sistema politico. Quaranta mesi (e diverse tornate elettorali) dopo il voto del febbraio 2013, vera data d’inizio di una nuova fase nella storia dell’Italia repubblicana, verrebbe da dire che ci ritroviamo tendenzialmente con tre poli e nessun “padrone”. Il vasto voto comunale del 5 giugno ha infatti delineato un panorama aperto in cui si distinguono chiaramente tre schieramenti maggiori – Pd, M5S, ex area berlusconiana – che sono però appesi alle valutazioni degli elettori che decideranno di partecipare al secondo turno del 19 giugno. Un’incertezza alla quale bisognerà abituarsi, anche perché promette di essere la condizione di fondo delle battaglie elettorali che si affronteranno nel tempo dell’Italicum che è alle porte, nel quale la vittoria al primo turno di un polo dominante e capace di incamerare almeno il 40% dei voti si annuncia come l’eccezione e il ballottaggio la regola. Tener conto degli elementi specifici, e anche localistici, delle storie elettorali che si sono scritte domenica scorsa in città grandi e piccole è certamente giusto e saggio, ma non si può ignorare la tendenza di cui si è appena detto e che ha preso piede a causa di scelte, orientamenti e insofferenze dei cittadini-elettori che – anche per effetto di un’astensione sempre clamorosa e più articolata – stanno scombussolando definitivamente il quadro ereditato dal bipolarismo centrodestra-centrosinistra e accelerano l’archiviazione di vecchi schemi interpretativi. È perciò meglio non fermarsi ad ascoltare troppo quelli che cercano di rievocarli. Quello sguardo non funziona più, forse illude ancora qualche capopartito, ma di certo non chi va (o non va) alle urne. Tre poli, dunque. E partite aperte, rischiose e promettenti per tutti. Ma – siamo in Italia, patria delle eccezioni – e allora è indispensabile sottolineare che due poli su tre (oggi, guarda caso, i più competitivi) sono costituiti per scelta deliberata o di fatto da un solo partito, caratterizzato da una leadership magari non solitaria eppure nettamente delineata, nella realtà così come nella testa della gente. Da una parte, il Partito democratico del segretario-premier Matteo Renzi e, dall’altra, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Una sfida a due dentro un sistema non più bipolare che è un film già visto più volte negli ultimi mesi. E, per come si sono messe le cose, che appare destinato a molte repliche. A cominciare dalla più importante, in occasione delle prossime elezioni politiche generali. E, prima ancora, del referendum costituzionale che si è convertito in un complicato prologo-ordalìa del voto politico, vera prova del nove per la proclamata e nascente Terza Repubblica.Della vocazione maggioritaria e della determinazione del Pd renziano si è detto di tutto e di più. E, pur nella difficoltà dell’attuale «deludente » condizione di incertezza che propizia dissonanze e sgambetti interni (situazione preziosa, se servisse a vaccinare il presidente del Consiglio da certe pericolose sensazioni di invulnerabilità), il ruolo della principale forza di governo resta chiaro e forte. Anche i cinquestelle sembrano, però, in condizioni di affrontare al meglio la prova, e la corsa tutta di testa – dai sondaggi sino all’impressionante successo al primo turno – al Comune di Roma ha tutta l’aria di una prova di maturità (che continuerebbe, si può starne certi, nell’eventuale avvio di un’azione amministrativa nella “disastrata” Capitale). Particolare e istruttiva è, infine, la condizione dell’attuale (e assai meno competitivo) terzo polo, un centro-destra tornato col trattino: da un lato, quel che resta del partitone “moderato e no” capitanato da Silvio Berlusconi e, dall’altro, la rampante (ma con un invincibile limite di consenso attorno al 18-20%) coalizione simil-lepenista guidata da Matteo Salvini. La coabitazione rissosa tra quelle due anime – che aveva reso il vecchio centrodestra spesso vincente, ma quasi mai davvero governante nei ventidue anni precedenti – appare ora improponibile. Manca il leader riconosciuto e federatore. E sulla volontà di cercare un successo comune prevale di gran lunga quella di sottomettere il potenziale alleato. Basta scorrere le dichiarazioni post-scrutinio per rendersene conto: per esempio la sanguinosa accusa di commercio di voti con cui il leghista Salvini ha gratificato Mariastella Gelmini, capolista di Forza Italia a Milano, colpevole di esser stata assai più votata dell’«altro Matteo». C’è veleno persino dentro la squadra che ha accompagnato la fenomenale rimonta di Stefano Parisi – competitore eccellente del favorito candidato renziano Beppe Sala – alla testa di un centrodestra senza trattino, ma assai diverso da quello di un tempo. La domanda è se quella che un tempo si autodefiniva «area moderata», nello schema tripolare che si è andato strutturando, possa ambire a qualcosa di ben diverso da un ruolo inesorabilmente gregario nel gran ballottaggio che sarà, se sarà. Cioè se continuerà a dimostrarsi più vogliosa di 'far perdere', che di vincere: una questione di programmi e di valoriguida, non solo di toni e di parole d’ordine. È l’ultima domanda della serie. E non è da prendere alla leggera.
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