martedì 20 agosto 2013
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I mercati vivono di convenzioni rialziste e ribassiste. Lo hanno imparato un po’ tutti. E un po’ tutti, in questi anni, hanno capito che tali convenzioni sono talvolta influenzate dall’esterno da fatti economi­ci eclatanti legati all’economia reale, ma molto spesso accade il contrario. Sono, cioè, le stesse decisioni dei mercati a fare notizia e a influenzare l’economia reale. Questo è tanto più vero nel caso dello 'spread' in quanto ogni movimento dei tassi sul mercato secondario (quello in cui i privati si scambiano i titoli di Stato già e­messi) ha degli effetti su prezzi e rendi­menti delle aste primarie (la prima vendi­ta dei titoli da parte dello Stato emittente) che producono conseguenze sul costo del debito pubblico e dunque sull’economia reale. Quello che è certo è che un mercato ad altalena, ovvero la presenza di ampie o­scillazioni prodotte da tendenze stabili di lungo periodo prima rialziste poi ribassi­ste, è il massimo per fare guadagni in fi­nanza dove è la volatilità e non la stabilità la 'virtù' più desiderata.L’efficacia dell’intervento del presidente della Banca centrale europea Mario Draghi è frutto della sua profonda conoscenza di questi meccanismi. E dell’aver saputo a­spettare il momento migliore (il 25 luglio 2012) per lanciare il suo famoso avverti­mento: la Bce avrebbe usato tutte le mu­nizioni possibili ( «whatever it takes ») per contrastare le forze disgregatrici dell’euro e l’esplosione dello spread. Il momento propizio era quello di uno spread suffi­cientemente elevato (attorno ai 500 punti o poco meno) tale da convincere i merca­ti che, da quei livelli, sarebbe stato più red­ditizio scommettere sulla riduzione (a­vendo più strada da percorrere e la Bce co­me alleata) che sull’ulteriore aumento da quei livelli (dovendo affrontare il fuoco di sbarramento della Bce, con risorse poten­zialmente infinite e con la possibilità di cambiare le regole del gioco). Da quel mo­mento è stato evidente che l’altalena dei mercati avrebbe iniziato la sua oscillazio­ne discendente e che solo dei terremoti del­l’economia reale avrebbero potuto cam­biare le cose. Nonostante tutte le turbo­lenze e le difficoltà politiche che nel nostro Paese a quella dichiarazione sono seguite, lo spread si è mosso verso il basso e con tutta probabilità continuerà a farlo anco­ra per un po’ (al di là delle piccole oscilla­zioni quotidiane in su e in giù).Molti, oggi, si domandano quanto possia­mo guadagnare dalla tendenza in corso. La contabilità del debito è, in fondo, piuttosto semplice. Cento basis points in meno (un punto percentuale in meno) sul costo del debito pubblico (oggi attorno ai 2.000 mi­liardi) sono circa 20 miliardi risparmiati. Calcolando che la vita media del nostro de­bito è attorno ai 7 anni (tanto ci vuole per rinnovare tutto il parco titoli) i 20 miliardi si risparmierebbero in quell’arco di tempo a patto che la riduzione di 100 basis points restasse stabile per tutto il periodo (ipote­si irrealistica, visto quanto detto all’inizio sulle altalene dei mercati). Il che impli­cherebbe una mancata spesa per interes­si di poco meno di 3 miliardi all’anno. In realtà, in questa fase, dovremmo comin­ciare a guardare meno lo spread (che ci di­ce il divario di costo di finanziamento tra le nostre imprese e quelle tedesche) e più il costo dei nostri titoli a lunga durata (che ci parla del costo del debito pubblico). La riduzione dello spread che stiamo osser­vando dipende infatti in buona parte dal­l’aumento dei rendimenti sui bund tede­schi. Un fenomeno derivante dal fatto che questi titoli cessano, in una situazione dei mercati migliore e nell’aspettativa della fi­ne del ciclo economico negativo in Euro­pa, di essere quella polizza contro le cata­strofi per la quale gli operatori finanziari e­rano disposti persino a pagare un premio (ovvero un interesse negativo).Non dobbiamo perciò, in questo momen­to positivo, dimenticare l’ansia delle esta­ti precedenti (in cui si discuteva sotto l’om­brellone di provvedimenti drastici come la 'patrimoniale' e i magnati più illuminati si lanciavano in dichiarazioni patriottiche 'pronti a fare la propria parte').
Dovremmo, piuttosto, imparare a sfruttare i momenti di bonaccia permettere da parte 'munizio­ni' efficaci percontrastare le tempeste future. Innanzitutto, le iniziative di governo per ridurre in modo significativo i rapporti deficit/Pil e debito/Pil, im­prontate non certo alla fallimentare teoria del 'rigorismo espansivo', ma a un giusto mezzo tra l’ossessione rigorista tedesca e lafollia espansiva giapponese. Contemporaneamente, le iniziative politiche per convincere i nostri part­ner ad una politica fiscale europea espansiva con investimenti produttivi nei settorigiusti. E, ultime ma non ulti­me, tutte le riforme necessarie per costruire un sistema finanziario non au­toreferenziale, ma ben regolato e al ser­vizio del bene comune. Non dobbiamo e non possiamo infatti rinunciare al­l’ambizione di imbrigliare le energie 'selvagge' dei mercati finanziari globa­li in una direzione utile all’economia reale e alla persona.
La storia della globalizzazione assomi­glia per molti versi a quella della fron­tiera americana. Prima arrivarono gli 'spiriti animali' lungo la via del tele­grafo (per noi quella del wifi e della re­te), poi la legge. La seconda fase sta ini­ziando adesso, ma ci vorranno molto tempo e molti sforzi e sofferenze prima che sia compiutamente realizzata.
 
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