Come una macabra sanguinosa gara. Una rincorsa a chi provoca più lutti e distruzione, sconvolgendoci con attentati di sicuro impatto mediatico. I terroristi e gli oppositori dei processi di normalizzazione in Afghanistan e Iraq sono all’attacco in questi giorni. Prima le minacce dei taleban contro chiunque partecipasse al voto per l’elezione del nuovo presidente della repubblica afghano. Poi il bombardamento dello stesso palazzo presidenziale di Kabul e, ieri, i devastanti attacchi simultanei contro i centri di potere e la zona verde internazionale di Baghdad, che hanno riportato quella capitale ai giorni peggiori del terrorismo jihadista. Un attacco, quest’ultimo, nello stesso giorno in cui, nel 2003, veniva distrutta la sede Onu e ucciso il rappresentante speciale del segretario generale, Sergio Vieira de Mello. Del resto, in entrambi i Paesi agiscono forze riconducibili, direttamente o indirettamente, ad al-Qaeda: in Afghanistan collegata ai taleban, in Iraq sempre più intrecciata con elementi del passato regime baathista (pur distante anni luce dall’ideologia islamista radicale), forze tribali sunnite, militanti stranieri. E in entrambi gli Stati, simile è anche l’obiettivo: minare i processi elettorali in corso, svuotarli di significato, favorire il diffondersi della sfiducia fra la popolazione civile e lo scoramento nella comunità internazionale. Tra le due realtà – è ovvio – vi sono anche profonde differenze: le forze armate e di sicurezza irachene sono molto più addestrate rispetto a quelle afghane e molto maggiore è il controllo sul territorio. Nel Paese arabo, a differenza dell’Afghanistan, non si tratta di riconquistare intere province sottratte al controllo del governo centrale, ma di fronteggiare un’insorgenza jihadista che sta ritrovando slancio sull’onda del ritiro dei soldati statunitensi dal controllo diretto delle città e delle crescenti tensioni politiche fra sciiti, curdi e sunniti. Non di meno, gli attentati di ieri ci riportano indietro, a tre o quattro anni fa, quando tra camion bomba e colpi di mortaio a Baghdad nessun edificio era al sicuro. Una regressione del livello di sicurezza che si era già notata negli ultimi due mesi e che rappresenta un pericoloso campanello d’allarme per il governo di al-Maliki, forse troppo sicuro dei propri mezzi e – come ritengono molti analisti politici a Baghdad – esageratamente ottimista. Tuttavia, l’Iraq e l’Afghanistan (nonché, a ben guardare, il Pakistan) sono parte di una stessa drammatica sfida. E non solo ai nostri occhi. Chi ordina di portare terrore e morte conosce bene il crescente senso di delusione e sfiducia che serpeggia nelle opinioni pubbliche occidentali: anni di morti fra 'contingenti di pace' che si ritrovano sempre più invischiati in vere e proprie guerre, anni di speranze e di promesse contraddette da sempre uguali scene di devastazione. E intanto i nuovi governi che abbiamo aiutato e difeso sembrano incapaci di dare risposte alle esigenze delle loro genti. Far fallire le elezioni di oggi in Afghanistan, tenendo lontani il più possibile gli afghani dai seggi, e avvelenare di violenza i lunghi mesi di campagna elettorale per le elezioni politiche del gennaio 2010 in Iraq, significherebbe vanificare quanto fatto finora, irrobustendo il fronte di chi, in Europa e in America, preme per il ritiro dei nostri contingenti militari. Ma vale la pena soffermarsi su di un altro elemento: qual è la proposta politica di jihadisti e talebani, che cosa offrono i terroristi alle popolazioni irachene e afghane? Dietro il fumo delle esplosioni e dentro il fiume di sangue innocente versato, c’è un vuoto abissale, che i triti slogan sul «califfato mondiale» e sulla «lotta ai crociati » non riescono a riempire. Anche se incredibilmente stenta a risultare chiaro a tutti, questo dato è del tutto evidente. Ed è lo sprone più forte a un impegno senza esitazioni per far crescere libertà e democrazia nei Paesi dove qualcuno si era illuso di importarla in quattro e quattr’otto a colpi di cannone. Nonostante i troppi errori – nostri e dei nostri alleati – e le troppe delusioni non c’è alternativa. Dietro al tribalismo e del fanatismo religioso non c’è alcuna proposta politica su cui trattare.