giovedì 20 agosto 2009
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Come una macabra sanguinosa gara. Una rincorsa a chi provoca più lutti e distruzione, sconvolgendoci con attentati di sicuro impatto mediatico. I terroristi e gli oppositori dei processi di normalizzazio­ne in Afghanistan e Iraq sono all’attacco in questi giorni. Prima le minacce dei taleban contro chiunque partecipasse al voto per l’elezione del nuovo presidente della re­pubblica afghano. Poi il bombardamento dello stesso palazzo presidenziale di Kabul e, ieri, i devastanti attacchi simultanei con­tro i centri di potere e la zona verde inter­nazionale di Baghdad, che hanno riporta­to quella capitale ai giorni peggiori del ter­rorismo jihadista. Un attacco, quest’ulti­mo, nello stesso giorno in cui, nel 2003, ve­niva distrutta la sede Onu e ucciso il rap­presentante speciale del segretario gene­rale, Sergio Vieira de Mello. Del resto, in entrambi i Paesi agiscono for­ze riconducibili, direttamente o indiretta­mente, ad al-Qaeda: in Afghanistan colle­gata ai taleban, in Iraq sempre più intrec­ciata con elementi del passato regime baathista (pur distante anni luce dall’i­deologia islamista radicale), forze tribali sunnite, militanti stranieri. E in entrambi gli Stati, simile è anche l’obiettivo: minare i processi elettorali in corso, svuotarli di si­gnificato, favorire il diffondersi della sfidu­cia fra la popolazione civile e lo scoramento nella comunità internazionale. Tra le due realtà – è ovvio – vi sono anche profonde differenze: le forze armate e di si­curezza irachene sono molto più adde­strate rispetto a quelle afghane e molto maggiore è il controllo sul territorio. Nel Paese arabo, a differenza dell’Afghanistan, non si tratta di riconquistare intere pro­vince sottratte al controllo del governo cen­trale, ma di fronteggiare un’insorgenza jiha­dista che sta ritrovando slancio sull’onda del ritiro dei soldati statunitensi dal con­trollo diretto delle città e delle crescenti tensioni politiche fra sciiti, curdi e sunniti. Non di meno, gli attentati di ieri ci riporta­no indietro, a tre o quattro anni fa, quan­do tra camion bomba e colpi di mortaio a Baghdad nessun edificio era al sicuro. Una regressione del livello di sicurezza che si e­ra già notata negli ultimi due mesi e che rappresenta un pericoloso campanello d’allarme per il governo di al-Maliki, forse troppo sicuro dei propri mezzi e – come ri­tengono molti analisti politici a Baghdad – esageratamente ottimista. Tuttavia, l’Iraq e l’Afghanistan (nonché, a ben guardare, il Pakistan) sono parte di u­na stessa drammatica sfida. E non solo ai nostri occhi. Chi ordina di portare terrore e morte conosce bene il crescente senso di delusione e sfiducia che serpeggia nelle o­pinioni pubbliche occidentali: anni di mor­ti fra 'contingenti di pace' che si ritrovano sempre più invischiati in vere e proprie guerre, anni di speranze e di promesse con­traddette da sempre uguali scene di deva­stazione. E intanto i nuovi governi che ab­biamo aiutato e difeso sembrano incapa­ci di dare risposte alle esigenze delle loro genti. Far fallire le elezioni di oggi in Af­ghanistan, tenendo lontani il più possibi­le gli afghani dai seggi, e avvelenare di vio­lenza i lunghi mesi di campagna elettora­le per le elezioni politiche del gennaio 2010 in Iraq, significherebbe vanificare quanto fatto finora, irrobustendo il fronte di chi, in Europa e in America, preme per il ritiro dei nostri contingenti militari. Ma vale la pena soffermarsi su di un altro elemento: qual è la proposta politica di jihadisti e talebani, che cosa offrono i ter­roristi alle popolazioni irachene e afgha­ne? Dietro il fumo delle esplosioni e den­tro il fiume di sangue innocente versato, c’è un vuoto abissale, che i triti slogan sul «califfato mondiale» e sulla «lotta ai cro­ciati » non riescono a riempire. Anche se in­credibilmente stenta a risultare chiaro a tutti, questo dato è del tutto evidente. Ed è lo sprone più forte a un impegno senza e­sitazioni per far crescere libertà e demo­crazia nei Paesi dove qualcuno si era illu­so di importarla in quattro e quattr’otto a colpi di cannone. Nonostante i troppi er­rori – nostri e dei nostri alleati – e le trop­pe delusioni non c’è alternativa. Dietro al tribalismo e del fanatismo religioso non c’è alcuna proposta politica su cui trattare.
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