Siamo stanchi ci serve sincerità. E un varco
domenica 15 novembre 2020

È dopo le dieci della sera che il deserto della strada diventa la misura dell’angoscia. L’inverno della nostra vita a quell’ora è una finestra che guarda sul vuoto: cerchi qualcosa che possa riempirlo, ma il pensiero è debole di fronte alla potenza di quello che ci sta capitando. Aspettiamo qualcosa senza sapere cosa, impiliamo giorni uno sull’altro in una catasta inutile che sale all’infinito. E nel frattempo, chi più chi meno, abbiamo perso la felicità.

O almeno quello stato d’animo che ci consente di tenere la schiena diritta e lo sguardo avanti, e che nella vita si può avere solo se hai qualcosa di bello da fare, qualcosa da amare, o almeno qualcosa da sperare. Ma quando fare si può poco, e amare diventa un rischio perché mai come ora sai che puoi perdere tutto per sempre, l’unico gancio resta sperare. Chi ha il dono della fede parte enormemente avvantaggiato, ma il resto del mondo arranca, inacidisce, si arrende.

La cronaca, ancora più dei morti, della curva dei contagi e degli ospedali pieni, toglie anche la voglia di un pallido ottimismo: mentre l’Italia annega, qualcuno attacca i ponti con il vinavil, l’ignoranza diventa vanto, il potere premia gli impresentabili, i negazionisti proliferano come le piante velenose. E altri ancora chiedono al governo di fare questo e quello, dimenticandosi che il governo sono loro. È in quel momento che lo sconforto erode la speranza e sfrega il cerino della rabbia. Non ci siamo mai sentiti così soli, e ora anche divisi, ma è in questa solitudine che dobbiamo crearci in proprio le occasioni per reagire con compostezza. Quando esortava a fare tesoro della felicità, lo scrittore americano Kurt Vonnegut non indicava uno stato irraggiungibile, ma qualcosa da cercare nelle proprie tasche.

Magari un istante dopo avere pianto: un’antropologa, impegnata a prendere nota del suo umore quotidiano durante questi giorni color topo, ha raccontato di essere scoppiata in singhiozzi per strada solo perché il fioraio aveva terminato i fiori. Poche ore dopo si è sentita meglio. Ma piangere era necessario, ha detto alla giornalista del 'New York Times' che ha raccolto la sua storia di sconforto: non si trattava dei fiori, ovviamente, ma di ciò che sta accadendo nella sua vita, nella vita di tutti. Siamo in una condizione di sostanziale impotenza, una profonda povertà che soffoca molti slanci. L’inverno d’Italia è un mondo trasformato: dove sono finite le bandiere? E i balconi che cantavano, il senso di solidarietà che in una primavera di lutti e di abbracci virtuali ci aveva traghettato in una realtà parallela di tricolori e illusioni? Tutto sparito, insieme a tanti buoni sentimenti.

Se oggi qualcuno si azzardasse a intonare un coro alla finestra, potrebbe persino correre il rischio di ricevere in faccia da un vicino la pentola sulla quale a maggio si batteva il ritmo dell’Inno di Mameli. Sono finiti i fratelli, è rimasta un’Italia depressa, più orfana di nonni, di lavoro e di prospettive. Cadere nella melma informe di questa peste di ritorno ha incattivito le cicatrici che ci ha lasciato la prima. No, purtroppo non è andato tutto bene, questo ormai è chiaro. L’annunciatissimo 'mondo migliore' è durato giusto il tempo di raccontarcelo.

E la promessa del 'niente sarà più come prima' si è trasformata, per ora, nella certezza del tutto come e peggio di prima. Ammetterlo non è una resa, ma un atto di sincerità. Che ci serve, perché aiuta a lanciare un messaggio, e magari a ricevere una risposta. Anche in un’epoca di pareri passivi, dell’indottrinamento che ci illude di avere la conoscenza di una tragedia più grande di noi, possiamo solo provare ad arginarla ma non abbiamo saputo comprenderla. Ora vorremmo qualcuno che ci dica quando finirà. Non perché sia per forza vero magari, ma perché abbiamo bisogno di un tetto, di un confine da guardare, di un varco da passare. Pensiamola come la semplice attesa di una grazia, che sparge il suo impercettibile profumo in un Paese alla prova.

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