martedì 30 aprile 2013
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Sui limiti del circolo vizioso prodotto dall’eccessiva stretta di bilancio e sul fallimento della teoria del rigore di per sé espansivo il coro è ormai assordante anche se molti commentatori sono saliti sul carro con un certo ritardo. I dati forniti dai "saggi" scelti dal Quirinale sono inequivocabili. Nell’ultimo anno, il crollo della domanda interna ha contribuito con una riduzione del 4 per cento del Prodotto interno lordo, controbilanciata solo in parte dall’aumento del 2 per cento prodotto dalla buona dinamica delle esportazioni. Questo significa che è quantomeno improbabile uscire dalla recessione senza rilanciare la componente interna dei consumi. Il nuovo governo si trova pertanto davanti all’urgenza di far ripartire un Paese economicamente in ginocchio per arginare la mancanza di speranza che rischia di trasformarsi in disperazione. Da questo punto di vista non mancano tanto le ricette più volte presentate e discusse in numerose sedi quanto le risorse economiche per realizzarle. Facendo rapidi conti sulle proposte condivise dalla coalizione di governo, ci vogliono 10-15 miliardi per evitare lo scoglio fiscale prossimo venturo: quasi 2 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva, 1 miliardo per schivare la stangata della tassa sui rifiuti di fine anno, addirittura 8 miliardi per cancellare l’Imu di quest’anno e restituire quella dell’anno scorso. Tra i 2 e i 3 miliardi sono poi necessari per rifinanziare la cassa integrazione in deroga ed evitare che il lavoro precario della pubblica amministrazione si traduca in altra disoccupazione. Altri soldi ancora sarebbero necessari per sgravare fiscalmente le nuove assunzioni di giovani e investire sull’istruzione e sulla Rete. La questione dunque è una sola. Perché l’Olanda può avere un deficit del 4,1 per cento, la Spagna ha negoziato e ottenuto di posticipare il rientro al 2016 e noi (ci) siamo costretti a rispettare il 3 per cento quest’anno ? Ci basterebbe un punto in più di deficit per ottenere le risorse necessarie per finanziare gli interventi descritti e probabilmente evitare quanto meno un ennesimo avvitamento della domanda interna, che peggiorerebbe ulteriormente il nostro rapporto debito/Pil. Come è ormai ben noto, Stati Uniti e Giappone hanno preso tutt’altra strada, ritenendo che il modo per controllare tale rapporto è agire aggressivamente per il rilancio della crescita (anche con la spesa pubblica e la politica monetaria espansiva) e non attraverso un arcigno rigore. C’è un solo compito urgente e prioritario per il nostro governo: possiamo e dobbiamo certo cercare anche in casa nostra (prima di tutto con un uso saggio della spesa pubblica) le risorse per finanziare i provvedimenti urgenti. Poiché però ulteriori tagli lineari non potranno che avere effetti depressivi sulla domanda, la strada maestra è rinegoziare gli impegni con l’Unione Europea e spingere affinché le sue politiche macro-economiche siano molto più espansive. La partita più importante di questo governo, sul piano economico-sociale, si gioca davvero in Europa.
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