mercoledì 12 agosto 2009
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Gentile Direttore,nel ringraziarla per le parole espresse nella sua risposta alla lettera di don Gornati, mi sento spinto a contribuire al dibattito a tema con alcune considerazioni. Certamente i tempi sono complessi ed il discernimento delle vicende è difficile. Lo è per noi preti, lo è senz’altro per un direttore di giornale, lo è per gli uomini e le donne di buona volontà. Figurarsi se non lo è per i vescovi. Con ciò mi pare legittimo che ella fornisca a don Gornati un elenco preciso di occasioni in cui il suo giornale, come pure i rappresentanti dell’episcopato italiano, si sono pronunciati in modo preciso circa le vicende morali del presidente del Consiglio, come pure circa alcuni discutibili provvedimenti in materia di immigrazione. Mi pare però che il confratello volesse intendere qualcosa di più profondo. È vero che, da un lato, ci sono stati pronunciamenti; dall’altro però, se è vero e diffuso il malessere espresso dal sacerdote, tali pronunciamenti non sono stati sufficientemente netti. Siamo, lei mi insegna, nell’era della comunicazione. Frasi dette durante una prolusione o fondi che argomentano e dissertano sono già qualcosa rispetto a un silenzio assordante, ma effettivamente appaiono segnali assai debolucci se raffrontati alla conclamata sfacciataggine con cui ciò che dovrebbe essere messo in discussione viene invece sbandierato. Se poi confrontiamo la qualità e la nettezza degli interventi della Chiesa ufficiale in altri ambiti, quali ad esempio le battaglie sulla bioetica, la differenza di metodo salta più che all’occhio: là non si lesinò sugli urli (a volte francamente eccessivi, perché non evangelici); qui invece le mille prudenze pastorali volte a conservare unità nel gregge danno come risultato l’impressione di velati sussurri. Mi unisco perciò all’amarezza di don Gornati perché, certo, gli organi ufficiali della Chiesa hanno parlato (e come non farlo in questo giustamente definito "squallore"?) anche se l’impressione generale che se ne trae, dato purtroppo il contesto mediatico che ci impone le sue leggi, è di una assai flebile volontà di chiarezza ed evangelicità. Ho detto l’impressione, non l’intenzione. Salvando quest’ultima, bisognerà pure che qualche domanda ce la si ponga anche sull’efficacia, o quantomeno sulla chiarezza delle parole spese. Mi pare fazioso porsi insidiose domande circa il perché di questo diverso modo di trattare urgenze ugualmente pressanti. Mi pare doveroso, a livello pastorale, chiedersi se tutto ciò non solo non unisca granché il gregge ma lo getti in una più interiore e insidiosa confusione, come purtroppo constato assai diffusamente da questa prima linea dove, come lei stesso ricorda, noi preti stiamo. Grazie per l’attenzione e per le eventuali risposta e pubblicazione.

don Matteo Panzeri, Milano

Caro don Matteo, ero fuori sede e riesco solo oggi a pubblicare la sua lettera. Della quale la ringrazio sia per i contenuti che per il tono. Credo che la «ponderazione» di quelle che ci appaiono le condizioni migliori affinché l’annuncio del Vangelo risuoni nitido nella coscienza dei nostri contemporanei non debba mai, proprio mai, abbandonarci. E che questo sia come un assillo che ci tormenta e giudica ogni nostra parola, ogni nostro silenzio. Nessuno dei potenziali interlocutori dovrebbe trovarsi a pensare che parliamo o taciamo per «interesse» personale, per qualche esplicita o inconfessabile partigianeria. Certo, anche noi siamo immersi nella società delle opinioni, spesso caotica e pigra nelle sue analisi. In troppi cedono alla tentazione di reagire con un giudizio netto e definitivo al semplice frammento estrapolato da un discorso ben più complesso. Stiamo al caso nostro. Sull’atteggiamento assunto dalla Chiesa nei riguardi delle scelte «private» del premier Berlusconi sui giornali si sta dicendo un po’ di tutto: «Repubblica» può permettersi un giorno di dire che si è arrivati da parte nostra a «scomunicare» Berlusconi e il giorno successivo asserire il contrario. Opinionisti famosi si alternano e allegramente si contraddicono, senza avvertire minimamente l’esigenza di argomentare la tesi sostenuta. E questa non è una variante indifferente. Ovvio che non si debba parlare soltanto per avere il plauso dei giornali, lo diceva non a caso l’altro giorno il cardinale Bagnasco. Ma nel ponderare le condizioni di innesto del Vangelo non si può trascurare il «contesto». Io ad esempio, per il mestiere che faccio, non posso non tenere conto degli sfottò che mi arrivano nell’arco delle ventiquattr’ore da personaggi del calibro di Francesco Cossiga o di Giuliano Ferrara. Per questi non è certo vero che «Avvenire» abbia parlato flebilmente, e dietro «Avvenire» è chiaro che costoro vedono altri. Voglio dire, don Matteo, che la domanda che conta in queste circostanze è, a mio avviso, la seguente: la gente è riuscita a individuare le riserve della Chiesa? Ebbene, la risposta che a me sembra di poter dare – ma il mio è comunque un ambito di osservazione limitato – è che la gente ha capito il disagio, la mortificazione, la sofferenza che una tracotante messa in mora di uno stile sobrio ci ha causato. I più attenti hanno compreso anche i messaggi specifici lanciati fino ad oggi a più riprese. Non è vero che quelli degli esponenti della Chiesa italiana siano stati interventi casuali o accenni fugaci impastati dentro a testi di tutt’altro indirizzo. Ciò che si è detto, lo si voleva dire. Esattamente in quei termini. Ripeto l’analogia fatta dialogando con il suo confratello don Gornati. Immagini che una situazione simile a quella vissuta in ambito nazionale si verifichi nell’ambiente in cui lei opera. Come parroco, sono certo che intensificherà le occasioni in cui essere ancor più prete, ancor meglio annunciatore delle esigenze del Vangelo. Dubito molto che si metterebbe a sbraitare fino a organizzare la dissidenza, fino a far nascere il dubbio che l’esito politico della faccenda le stia a cuore più della chiarezza del Vangelo. Ecco, questo mi pare il criterio con cui i vertici del nostro episcopato si sono mossi, in una logica magisteriale che è in continuo divenire. Per franchezza, vorrei non lasciar cadere il suo accenno allo «squallore» di certo interventismo degli organi della Chiesa: davvero non so immaginare a chi in concreto si riferisca ed eventualmente a quale circostanza. Devo dirmi sicuro tuttavia che nello scrivere quelle parole lei non pensasse certamente ad «Avvenire», altrimenti "parresia" avrebbe voluto che anche il suo parlare non fosse troppo cifrato. La saluto con simpatia.
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