venerdì 25 marzo 2016
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​Caro direttore,«Quello che cucini, questo tu mangi»: questo modo di dire siriano, che si ascolta in questi giorni a Damasco a commento degli attentati di Bruxelles, è brutale, ma dà voce alla rabbia e frustrazione di chi vive da cinque anni in guerra e soprattutto avverte il macigno dell’indifferenza della  “comunità internazionale”.Guardare all’Europa dalla Siria offre una prospettiva diversa sull’angoscia che si legge nelle analisi sapienti su quanto accaduto. Tra i siriani si percepisce sotto traccia l’accusa nei confronti dei governi dell’Occidente che non avrebbero saputo o voluto intervenire al momento giusto per contenere la deriva barbara dello Stato islamico. Che avrebbero sperato di guadagnare qualcosa dal fermento del Medio Oriente finito nel sangue in Iraq, in Siria, ma anche a Bruxelles e a Parigi… E dall’altra però dai siriani viene anche una nitida richiesta: decidetevi ad affrontare la questione in modo globale, altrimenti resteremo tutti in questo pantano ancora a lungo. Isis, che appare in Medio Oriente appena scalfito, agisce in modo globale: non esistono confini per le sue azioni terroristiche. Ha una base nelle terre del Califfato, ma i suoi uomini agiscono in tutto il mondo, usando i mezzi più all’avanguardia della comunicazione digitale per la propaganda e l’arruolamento di forze giovani. Mentre chi dovrebbe contrastarli appare diviso: ognuno procede in modo parcellizzato, si preoccupa di quel che accade dentro i suoi confini, mentre gli uomini del terrore li attraversano. Da Damasco a Bruxelles la sfida è la stessa: agire in modo coordinato, considerare che le frontiere non sono il limite dove finisce la nostra responsabilità, ma sono le porte attraverso le quali far passare nuove forme di collaborazione per fermare la violenza e promuovere un aiuto umanitario intelligente, non più rinviabile.
Camminare per le strade di Damasco e incontrare i suoi abitanti sono semplici azioni che restituiscono un quadro paradossale: c’è traffico, segno di vitalità, e sui muri c’è la pubblicità di "Whatsapp", gli uffici sono aperti… Potresti quasi dimenticarti in che Paesi ti trovi, ma poi guardi alla popolazione e vedi che la maggioranza è composta di donne e bambini, che la città è svuotata dei suoi cittadini, di uomini e giovani. Sono scappati, sono morti o sono al fronte. Questo è il punto: il capitale umano. Quando scoppierà la pace, su chi potrà contare la Siria? Non si può immaginare sviluppo né ripresa a prescindere dalle persone in carne e ossa.
E qui la sfida: pensare e provvedere ai bisogni più immediati, acqua, cibo, igiene, ma anche a un bene che non sembra altrettanto urgente, ma che proprio il tempo che viviamo ci ributta addosso come fondamentale: la questione educativa. Un’emergenza che attraversa il pianeta: educazione non come sinonimo di formazione né istruzione (che pure sono essenziali), ma come cura integrale della persona. Perché ciascuno arrivi, un passo dopo l’altro, a riconoscere che l’altro, per quanto diverso, è un bene per me. Da questo che è più di un valore, un’esperienza concreta che tutti dovrebbero fare, comincia la rivoluzione attesa.
*Segretario generale Fondazione AVSI, da Damasco
 
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