mercoledì 9 dicembre 2009
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A ormai quasi vent’anni dal suo congresso di fondazione (febbraio 1991) la Lega Nord sembra vivere una stagione in qualche modo paradossale e forse suscettibile di sviluppi al momento imprevedibili. Nata con le parole d’ordine dell’autonomia e dell’«etnofederalismo» interno allo Stato unitario, la formazione di Umberto Bossi si trova oggi a combattere in prima linea un’aspra battaglia, e proprio dalla trincea "romana", contro la pletora delle strutture amministrative locali. Strutture che in teoria, sulla base della sua ispirazione originaria, dovrebbe invece difendere accuratamente dal controllo centralista. Al tempo stesso, la fase espansiva del movimento, ben al di sotto della linea simbolica del Po, sembra imporgli uno scivolamento su terreni di contesa ideologica in origine meno frequentati, come quello identitario nazionale, che necessariamente porta ad annacquare le caratteristiche di forza annidata anzitutto sui territori del settentrione.Proprio in queste ore, ad esempio, si sta sviluppando una vivacissima dialettica tra il ministro della Semplificazione normativa Roberto Calderoli e le diverse associazioni degli enti locali, sindaci in testa. Motivo scatenante: la scelta del governo di inserire nella Finanziaria 2010 un drastico, e soprattutto non contrattato, taglio di poltrone e di funzioni decentrate. Il contrasto sfocerà domani in una "marcia" su quel Palazzo Montecitorio che, scherzi della storia, vedrà asserragliati al suo interno in veste di assediati i nomi più noti della nomenclatura "lumbard".Nessun dubbio che, al dunque, tra i furibondi primi cittadini – fra i quali, a quanto pare, non manca chi ha in tasca la tessera del Carroccio – e i rappresentanti di quella capitale politica un tempo odiatissima al di sopra della linea gotica, si troverà un margine sufficiente di compromesso. Così come è certo che la rappresentanza ministeriale leghista, spalleggiata dal custode dei conti pubblici Giulio Tremonti, avrà buoni argomenti da spendere, a cominciare dalla prospettiva di poter allargare più agevolmente i cordoni della borsa in futuro, man mano che le "bocche" in competizione si ridurranno di numero.Resta tuttavia l’impressione di un’inversione di ruoli che rischia di lasciare appannata l’immagine dei seguaci di Alberto da Giussano. Un conto infatti è arrivare a chiudere un accordo sulla base di una trattativa alla pari, mettendo gli interlocutori in condizione di esporre le loro ragioni prima di scrivere le norme nero su bianco. Un altro è accettare di sedersi a discutere in puro "stile Barbarossa", con la pistola sul tavolo dei tagli già quantificati e scadenzati nel tempo.Anche le ultime polemiche e prese di posizione, seguite alla sentenza della Corte europea di Strasburgo sul crocifisso e al voto svizzero sui minareti, al di là di certi accenti studiatamente esagerati e oltre il limite del tollerabile, sembra denunciare l’ansia di trovare nuova "tela da tessere", quasi per riscuotere consensi che il codice genetico del movimento avrebbe altrimenti difficoltà ad aggregare. È difficile del resto immaginare che, lontano dal bacino padano, la buona gente dei borghi appenninici o dei centri rivieraschi del medio Adriatico o Tirreno avrebbe grandi motivi di schierarsi sotto le bandiere con il verde sole alpino.Ecco allora che l’iniziativa politica e lo sforzo propagandistico della Lega tendono sempre più a lasciare in secondo piano i temi delle identità locali da valorizzare, per scegliere appunto le grandi battaglie d’immagine "nazionali", in chiave etnica o para-religiosa. Gioco talvolta facile, va detto, se solo si pensa a certe derive prevalenti nei consessi continentali. Talvolta assai rischioso, come quando ci si abbandona all’illusione di ottenere voti attaccando l’arcivescovo di Milano e la sollecitudine evangelica, e senza distinzioni, della Chiesa per i più poveri. Ma, anche restando solo sul piano dei simboli, nell’Italia degli ottomila Comuni sembra impossibile dimenticare che le croci più visibili sono quelle piantate in cima ai campanili.
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