giovedì 23 maggio 2013
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Gli imprenditori italiani si interessano alla scuola. Il che è ben comprensibile: se il sistema di istruzione del nostro Paese manifesta diversi punti di criticità e sostanziali debolezze rispetto a quelli dei nostri competitor, è naturale che chi fa impresa manifesti la propria preoccupazione. Tale è il caso dell’Italia, come si è evidenziato nel convegno annuale della Federazione Nazionale Cavalieri del Lavoro, che si è svolto nei giorni scorsi a Venezia presso la Fondazione Giorgio Cini sul tema «Una scuola più europea per la competitività e una cittadinanza attiva». Perché una scuola più europea? Perché i dati snocciolati dagli esperti convenuti all’Isola di San Giorgio Maggiore non lasciano margini di dubbio: l’Italia è un Paese che rischia non tanto il default finanziario, quanto un default (purtroppo già avviato) di preparazione culturale e competenze professionali. Prendendo in considerazione due parametri – la quota dei laureati sul totale della popolazione adulta e la quota di lavoratori ad alta qualificazione sul totale della popolazione attiva – ci si rende conto che l’Italia è superata, nei ranking internazionali, da Paesi come la Macedonia, la Corazia e la Lituania.Nazioni nobilissime, ma certamente più piccole, economicamente più deboli, decisamente meno industrializzate della nostra, che hanno deciso di puntare proprio sull’istruzione per accelerare il processo della propria effettiva integrazione nell’Unione Europea. Se guardiamo alla popolazione italiana di età compresa tra il 24 e i 65 anni, quasi il 50% possiede soltanto la licenza media, mentre la media europea è del 25%. Quanto alla forza lavoro da noi il 37% presenta un livello di qualificazione basso; nell’Ue siamo al 20%. Ad avere un livello di qualificazione alto sono il 18% dei lavoratori italiani; la media comunitaria è del 32%.Insomma, il ritardo culturale – questa la preoccupazione del gotha degli imprenditori italiani – rischia di determinare sempre più un ritardo economico. Qual è la strada da percorrere? Due sono le piste indicate dal convegno veneziano e si possono riassumere in due concetti fondamentali: merito e autonomia. Quanto al primo concetto, a volte si sente parlare di "meritocrazia". Una parola che però non ci piace del tutto, perché il merito non dovrebbe dare origine a un "potere", ma sarebbe bello che si facesse piuttosto "servizio": a vantaggio di tutti, della collettività e dei più deboli. È certo però che un Paese che non valorizza i propri talenti (emarginandoli a vantaggio dei figli di papà o dei raccomandati di turno, compresi quelli che più elegantemente vengono chiamati "cooptati", ad esempio nelle carriere universitarie) non può andare molto lontano.

Di autonomia, a proposito della scuola, si parla ormai da molti anni, ma purtroppo si tratta spesso di una parola priva di contenuto reale. Perché di fatto la struttura del sistema scolastico italiano è ancora molto centralistica e verticistica. È invece sempre più urgente che la scuola si apra ai diversi territori, modulando l’offerta formativa sulle concrete esigenze delle differenti realtà socio-economiche. E che valorizzi la diversità delle esperienze, in particolare quelle d’eccellenza. Qui anche la scuola paritaria – lo dico da insegnante statale senza complessi di superiorità – avrebbe molto da offrire sul tavolo della discussione. Per realizzare davvero quel sistema dell’istruzione pubblica in cui Stato e soggetti non statali possano lavorare insieme per il bene del Paese. E anche questo, tra parentesi, sarebbe un bel passo avanti in quel processo di integrazione europea – per stare, appunto, al passo con l’Europa – da tutti auspicato.

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