Scelte di vita oltre le paure
sabato 4 luglio 2020

Un bambino che nasce è da sempre un segno di speranza, un’opportunità di fioritura personale per tutti coloro che lo circondano: per i suoi genitori innanzitutto, che si aprono a una nuova stagione della loro vita e che si augurano e si aspettano una nuova ricchezza affettiva, e così per tutta la rete di rapporti in cui il nuovo nato si inserisce. E per questo il quadro drammatico disegnato dall’Istat, che paventa la possibilità di un vero tracollo demografico per l’Italia nei prossimi anni, prima di tutto è il segno di un Paese che sta perdendo la speranza, e che sta scomparendo.

Da decenni l’andamento delle nascite è in perenne declino nel nostro continente. Peste bianca, inverno demografico, culle vuote, epidemia di infertilità (e pazienza se l’infertilità non si trasmette, ma va detto che è sempre più diffusa): tante sono state le immagini con cui via via nel tempo è stata descritta la situazione di progressivo invecchiamento in Europa, dove in nessun Paese – è bene ricordarlo – si supera la soglia di 2,1 figli per donna, quel numero cioè che garantisce la sopravvivenza delle comunità, consentendo che i figli almeno sostituiscano i due genitori, quando questi moriranno. Da un pezzo sappiamo che di questo passo l’Europa tutta è destinata a estinguersi, e l’unica differenza sta nella tempistica: i Paesi che hanno adottato politiche di supporto alla natalità impiegheranno più tempo rispetto a chi, invece, è stato solo a guardare indifferente il peggioramento progressivo della situazione, come l’Italia. A prescindere, è bene precisarlo, dal colore politico dei governi in carica, nessuno dei quali ha inserito la questione demografica nell’agenda politica, dando invece spesso la precedenza a discutibilissime battaglie ideologiche.

La denatalità ha colpito finora la parte più ricca del mondo, l’occidente europeo, dove le tutele per i lavoratori sono robuste, il welfare solido e i sistemi sanitari fra i migliori del pianeta: non è questione solo di fatica socio-economica, quindi, ma anche di disagio culturale e valoriale.

Secondo l’Istat il desiderio di avere figli ancora c’è, anzi, se ne vorrebbero almeno due, a conferma di analoghe, precedenti rilevazioni. Ma al dunque, la paura ha la meglio: paura di un futuro incerto in una società più diseguale eppure ancora di diffuso benessere economico, tanto che anche fra le persone benestanti, anche fra chi ha un lavoro e una casa di proprietà, i figli scarseggiano. Paura di cosa, quindi?

È questa la domanda a cui dovremmo cercare di rispondere: servono come il pane politiche economiche a sostegno delle famiglie ma non basteranno a cambiare del tutto la situazione, come ci mostra l’andamento demografico degli altri Paesi dove queste politiche sono state attuate.

E la situazione rischia di precipitare irrimediabilmente adesso, con l’ombra cupa che la pandemia ha gettato sul futuro di tutti, un’ipoteca pesante sui tempi che verranno.

E per questo appaiono ancora più lunari, in lontanissime dimensioni spazio-temporali certe manifestazioni pro-aborto delle ultime settimane, decisamente vintage nei toni e nei contenuti, come se in Italia il problema fosse invece l’impossibilità di abortire. Anche l’ultima relazione al Parlamento ha confermato quanto già ampiamente dimostrato negli anni precedenti: la legge 194 è applicata in tutta Italia, addirittura il 15% di ginecologi non obiettori non viene utilizzato per fare gli interventi, e le loro amministrazioni li destinano ad altri servizi sanitari, un dato in constante aumento negli anni.

Di fronte a decine di migliaia di donne che continuano ad abortire; di fronte a decine di migliaia di coppie che vorrebbero figli ma non ne fanno, onestà intellettuale vorrebbe che tutti ci chiedessimo: perché? Quali sono gli ostacoli insormontabili ad avere figli, in una società problematica ma pur sempre in uno dei Paesi più ricchi al mondo? Uno spunto di riflessione potrebbe venire proprio dal Covid, questa pandemia che all’improvviso ha messo al centro le politiche di salute pubblica, i bisogni e le necessità della collettività, i comportamenti dei singoli misurati in termini di responsabilità nei confronti della società, specie dei più vulnerabili.

Non si tratta di voler mettere il naso nelle scelte private dei cittadini, ma di aprire occhi e orecchie di fronte a un campanello di allarme che si sta trasformando in una campana a morte per il nostro Paese. Non si tratta di mettere in contrapposizione il bene comune e l’autonomia del singolo, ma di scommettere che mettendo al centro il valore incommensurabile di ogni singola vita umana ne conseguono anche i criteri per individuare le politiche più adeguate per il bene comune, e per ogni persona.

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