martedì 16 dicembre 2008
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La ratifica finale del via libera dell’Agenzia del farmaco alla pillola abortiva sarebbe imminente. Se davvero accadrà, se davverò la porta aperta nello scorso febbraio resterà aperta, in ospedale le donne potranno optare per l’aborto chimico. Nonostante i rischi di effetti collaterali della Ru486, stando alla letteratura scientifica, siano più elevati, l’introduzione in Italia è da anni sostenuta da un fronte politico e mediatico massiccio. Per la Ru486 sono intervenute coralmente le più autorevoli voci progressiste. L’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti ebbe a dire che l’ introduzione della Ru era indice del «grado di civiltà e rispetto della persona», e su "Repubblica" Miriam Mafai spiegò alle lettrici come la contrarietà dei cattolici alla Ru486 fosse reazione «contro la pretesa della donna di abortire senza adeguata sofferenza». Inoltre, argomento facile, in Europa molti Paesi hanno già adottato la pillola; e si sa che l’adeguarsi al trend degli "altri" è tema di forte presa, in un’Italia che ha sempre il complesso di essere in ritardo su una altrui pretesa modernità.Dunque, nonostante nuove e lodevoli verifiche inducano a non dare per scontato alcunché, avremo anche noi la "nostra" Ru486: 48 ore per uccidere l’embrione e, dopo una seconda dose, 24 per espellerlo. Un aborto lungo tre giorni. Proviamo a metterci in una prospettiva puramente femminile. Immaginiamo una donna che scelga la pillola abortiva: sia per il battage che ne è stato fatto, sia perché sembra cosa meno cruenta che un intervento. Assumerà il mifepristone e aspetterà per 48 ore la morte dell’ embrione, prima che la seconda dose al terzo giorno lo snidi dall’utero. 72 ore così possono essere lunghissime; nell’ambivalenza che tante in sé hanno verso un figlio pure razionalmente non voluto; nel rimpianto di quelle che lo avrebbero tenuto, ma pensano di non potercela fare. Tre giorni come questi sembrano una prova aspra per chiunque non sia completamente assente da se stessa. Il parlare di Ru486 come di aborto «con minore dolore» sta nella logica per cui il dolore è solo fisico; logica maschile, elementare, che ignora come sciocche favole il lavorìo dei pensieri e del cuore . E il dibattersi, se non in tutte certo in molte donne che interrompono la gravidanza, di una profonda radice, che anche nella negazione con quella creatura concepita ha comunque un istintivo legame, e non dimenticherà. L’aborto semplice, l’aborto da bere – promettono – libererà le nostre figlie dai ferri del chirurgo. È probabile che, a diciott’anni, alla scoperta di essere incinte per sbaglio saranno più tranquille: «In fondo, è una pillola». Solo una pillola. E una rimozione, più facile soltanto nell’immediato, dell’evento drammatico che è per una donna un aborto; e insieme una semplificazione per le strutture sanitarie che risparmiano anestesie, e per i ginecologi, che da un ruolo attivo e penoso diventano asettici somministratori di pastiglie.Un affare, per molti.Poi, in ospedale o fuori, l’aborto in un bicchiere d’acqua resta a totale carico della madre mancata: lucida e sola in quelle ore di agonia con i suoi pensieri, che ben difficilmente troveranno il luogo per dirsi, e meno ancora di quanto non sia sempre stato. L’aborto più "facile" sarà il più duramente censurato nel dolore – che non viene solo dal bisturi. Procedure più agili, costi minori, medici liberati da un pesante fardello: l’aborto da bere, quasi invisibile, ha la stessa efficacia pragmatica della cultura che teorizza l’eliminazione dei figli malformati e la soppressione dei malati in stato vegetativo. Promette una rapida cancellazione di tutto ciò che è "problema". Se diventerà possibile, avrà successo. Le donne però sono più complicate di quanto questo pragmatismo comandi. La banalizzazione del dolore non le renderà più libere, né più felici.
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