Sanità inglese, i sette giorni che convertirono Mr. BoJo
martedì 14 aprile 2020

La settimana che Boris Johnson ha trascorso in ospedale vittima del coronavirus, oltre ad avergli salvato la vita potrebbe averlo convertito su due punti essenziali: l’immigrazione e il Servizio sanitario nazionale. Lo testimonia il discorso pronunciato il giorno di Pasqua quando è stato dimesso dall’ospedale. Fra i tanti ringraziamenti che ha espresso, su due si è soffermato con particolare calore. Il primo verso il Servizio sanitario nazionale britannico che non ha esitato a definire «il cuore pulsante della nazione».

Il secondo verso i due infermieri che per quarantotto ore lo avevano assistito nella fase più critica, quando la difficoltà respiratoria poteva trasformarsi in tragedia. Johnson ha voluto citarli per nome precisando che si tratta di due immigrati: Jenny proveniente dalla Nuova Zelanda, Luis dal Portogallo.

L’eccezionalità dei due ringraziamenti sta nel fatto che si riferiscono a due situazioni che il Partito Conservatore ha sempre osteggiato. Per quanto riguarda l’immigrazione, non è un mistero che la decisione inglese di abbandonare l’Unione Europea è stata motivata in gran parte dal desiderio di poter limitare l’ingresso degli stranieri provenienti in larga misura dal resto dell’Unione. In particolare polacchi, rumeni, portoghesi. Ma l’economia britannica poggia sulla presenza di immigrati che in alcuni settori giocano un ruolo insostituibile: più di un terzo dei medici, dei farmacisti e dei dentisti sono nati all’estero. Lo stesso dicasi per il 20% del personale infermieristico.

E tuttavia se Boris Johnson ha vinto le elezioni nel dicembre scorso, lo deve in gran parte alle città del Nord dell’Inghilterra, che hanno letto il suo slogan “ Let’s get Brexit done” (che la Brexit sia fatta) come una chiara promessa di chiusura delle frontiere ai lavoratori stranieri. Del resto in più occasioni BoJo aveva annunciato di voler applicare il sistema australiano che dà il benvenuto ai grandi talenti, mentre tiene alla porta i lavoratori capaci di medie e basse capacità, infermieri compresi. Ora, dopo la sua esperienza personale potrebbe aver cambiato idea. Un analogo ripensamento potrebbe riguardare il Servizio sanitario nazionale che il Partito conservatore spinge da sempre verso la privatizzazione. Istituito nel 1948 e subito amato dagli inglesi, subì una prima incrinatura negli anni Ottanta del secolo scorso quando Margareth Thatcher decretò la possibilità di poter esternalizzare a imprese private servizi specifici come pulizie, mense, lavanderie, sterilizzazione. Nel 2000 la crepa si approfondì ulteriormente con la decisione, questa volta da parte del governo laburista di Blair, di appaltare a società private anche mansioni di più diretta pertinenza sanitaria come indagini di laboratorio e piccoli interventi chirurgici. Ma la maggior apertura ai privati è stata decretata dalla riforma del 2012 che spinge ulteriormente il Servizio sanitario verso il mercato attraverso due meccanismi principali: la possibilità di scegliere liberamente se rivolgersi a una struttura privata o pubblica per le prestazioni erogate dal Servizio sanitario nazionale e la possibilità per quest’ultimo di appaltare l’assistenza ospedaliera ai privati. Uno dei settori a maggior coinvolgimento privato è quello psichiatrico.

Secondo un’indagine condotta dal “Financial Times”, a Bristol il 95% dei posti letto dedicati ai pazienti psichiatrici è in strutture private, prevalentemente società statunitensi quotate in Borsa quali Acadia Healthcare e Universal Health Service. Nel novembre scorso, durante la campagna elettorale, il Partito Laburista sosteneva di avere documenti comprovanti l’intenzione dei conservatori di voler utilizzare la Brexit per consentire alle imprese sanitarie statunitensi di penetrare ulteriormente nel Sistema sanitario britannico. In Gran Bretagna si contano 548 ospedali privati e varie altre migliaia di studi professionali che assorbirebbero, a seconda delle stime, fra il 7 e il 22% del bilancio pubblico dedicato alla Sanità. Molti sanitari britannici contestano questa apertura. La British Medical Association in documento afferma: «Benché le strutture private non possano avere successo se non forniscono una buona assistenza, ci possono essere circostanze in cui gli obblighi professionali verso i pazienti possono entrare in rotta di collisione con le esigenze di guadagno».

La cessione delle attività secondo un criterio monetario ai privati e lo stanziamento di somme insufficienti a finanziare adeguatamente il Servizio sanitario nazionale hanno fatto perdere agli ospedali inglesi 17mila posti letto negli ultimi dieci anni, mentre mancherebbero oltre 100mila persone fra medici e infermieri. A marzo il sindacato dei lavoratori del gas ha lanciato una petizione per richiedere al premier di requisire 8mila letti non utilizzati nelle strutture private per metterli a disposizione dei pazienti affetti da coronavirus. Ora Boris Johnson potrebbe farlo. Potrebbe.

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