Il gesto di donare un rene senza sapere a chi
mercoledì 14 dicembre 2016

È forse la prova più alta di cosa vuol dire “essere generosi”, “essere buoni”, “donare”. È una notizia di qualche giorno fa, e se n’è parlato, ma vale la pena tornarci sopra, perché è una di quelle notizie che ti fermentano nel cervello, e ti scaricano sempre nuovi significati, anche mentre dormi. Una ragazza giovane, di cui conosciamo il nome, Paola, ma non il cognome, ha donato un rene, ma non a un amico o a un’amica o a un parente, insomma a qualcuno che lei conoscesse e che potesse incontrare, ma al primo sconosciuto che ne avesse bisogno: s’è fatta togliere un rene in un ospedale e l’ha lasciato a disposizione. Diciamo: l’ha donato all’umanità. Si chiama «donazione samaritana».

Non avviene spesso, questo è il secondo caso in Italia. La spiegazione che Paola ha dato (e che, suppongo, avrà fornito anche ai medici, che certamente hanno indagato a fondo sul perché di quella donazione) è molto semplice, ma quasi inintellegibile nella sua sublimità. Ha detto: “Io sto bene. Se dono un rene a qualcuno che ne ha bisogno, staremo bene in due”. Dunque, dona un organo del proprio corpo e in questo modo raddoppia la propria felicità. Ha spiegato questo concetto nella lettera a un giornale che l’ha pubblicata a partire dalla prima pagina. Non so se lei lo sa, se ci ha pensato, se qualcuno gliel’ha detto, ma questo suo gesto d’altruismo (farti strappare col bisturi un organo del tuo corpo, e donarlo a qualcuno che non sai neanche chi è) è il perfetto opposto del test d’egoismo inventato da Balzac.

Balzac pone una domanda: cosa faresti se ti si offrisse la possibilità di diventare ricco e potente, molto ricco e molto potente, a patto che tu accetti che qualcuno, che non hai mai visto e mai vedrai, perché vive dall’altra parte del mondo, poniamo in Cina, muoia per te? La risposta è: Non lo so, ci devo pensare, ma quel cinese non sta molto bene. È la perfetta applicazione del mors tua, vita mea. Accettare il male, purché sia lontano da te. Applicare un’idea geograficamente riduttiva del concetto di prossimo. Chi non è vicino a me, non è mio prossimo. Il suo dolore non mi riguarda. È il concetto per cui pugnalare o strangolare vuol dire ammazzare, ma fucilare un po’ meno, perché il contatto è più lontano, e bombardare quasi per niente, perché il contatto non c’è. Il pilota di bombardiere che rientra alla base dopo una missione compiuta, non ha l’angoscia del soldato di un plotone d’esecuzione, neanche se il plotone ha eliminato un condannato e la squadriglia una città.

È la vicinanza, la prossimità a stabilire il legame tra chi fa il bene o il male e chi lo riceve. Gli autori del massimo male, l’Olocausto, hanno inventato degli intermediari, selezionandoli tra le prossime vittime, che eseguivano materialmente gli ordini, dando l’illusione che le vittime si eliminassero tra loro. L’idea che il bene si fa a chi ne ha bisogno, non a chi conosci, regge la vita e il lavoro dei missionari. Vanno in cerca dei bisognosi di bene, a casa loro. Si presentano come ospiti e si mettono al loro servizio. Ne ricavano una soddisfazione morale che è il senso della loro vita. Ricordi, visioni, incontri. Guarigioni, conversioni. Educazioni. Conosco un medico missionario che come apice della propria vita ricorda quando è entrato in una capanna in Africa, dove una bambina malata piangeva. La piccola gli prese una mano, chiamandolo oba (papà), e non lo mollava più. Sì, si può ricavare forza e conforto da un ricordo del genere. Se ti s’affaccia nel momento in cui muori, puoi morire con serenità.

Ma Paola non avrà questo ricordo, questa visione, non sentirà queste parole. Non ha fatto il massimo bene (ridare la vita) a una persona concreta, ha fatto il bene in sé, kantianamente parlando. Si sente ricca e felice perché grazie a lei vive e sta bene qualcuno, che lei non ha mai conosciuto e mai conoscerà. Ha rovesciato Balzac. Non lo credevo possibile.

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