mercoledì 6 aprile 2016
 Riecco l'Aquila (ma torni vecchia)
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Chi entra all’Aquila oggi vede tutt’un cantiere. È un volto nuovo, diverso da quello che la città ha offerto sinora. Diverso da quello, che per vari anni, a partire dal terremoto del 6 aprile 2009, ci eravamo abituati a vedere, con tanti edifici distrutti; simile a quello della molto più 'ruinata' città, come riportano i resoconti successivi al disastroso sisma del 1703 che la devastò, con uno spaventoso tributo in migliaia di vite umane. È anche un volto diverso delle new town dal 2009 tirate su in fretta tutt’intorno all’abitato, coi centri commerciali che cercano di porsi come nuove piazze, come nuove agorà o luoghi di aggregazione. È soprattutto diverso dal ridente volto che la pur severa città ha sempre offerto, con un terzo della popolazione fatta da studenti, soprattutto universitari, che affollavano le vie, le piazze, i portici. A guardarla oggi, è una città nuova che cerca in ogni modo di rifarsi antica. Non è un ossimoro, è una realtà. Le dimore gentilizie o le umili case venute su nei secoli, le chiese, le strutture civiche appaiono fronteggiate da gru o piattaforme, ingabbiate da ponteggi, trafficate da operai e tecnici; offrendo la vista, probabilmente unica nel panorama architettonico mondiale, di qualcosa di antico che stia venendo costruito oggi. Questo trasmette il marmo ripulito e recuperato dei portali. Questo dice la pietra bianca della Maiella, dalle rinascimentali inquadrature a cornice di finestre perfette, come se fossero state appena montate. Questo raccontano le spettacolari facciate del XV, XVI, XVII, XVIII secolo, rimesse a nuovo, senza le crepe neppure dovute ad assestamento o vetustà, senza cioè le rughe del tempo che un sapiente make up, dato dalle vernici originarie attentamente riproposte, ha eliminato. Oggi abbiamo insomma la stessa vista che ebbero i costruttori secoli fa, quando l’antico era nuovo, prima di sbancare le opere che avevano realizzato, per offrirle alla vista degli aquilani. Certo non c’è molta vita intorno. Non ci sono auto, in quanto solo poche vie, non centrali, sono state riaperte al traffico. Deserta è l’isola pedonale, un tempo animatissima, del corso Federico II; deserte tutte le vie e piazze nelle sue adiacenze. E noi vorremmo rivedere l’Aquila com’era. Il cuore è rimasto orfano di tutta un’altra città, non di questa rimessa a nuovo, ma vuota e quindi ancora desolata, in questo crudele aprile del settimo anniversario. E non basta dire, al cuore: aspetta, da’ tempo al tempo: perché cuore e memoria sono anarchici rispetto alla legge del tempo, non le obbediscono, premono per rivedere la città rianimata, riabitata, rivissuta, raggiante e palpitante di gioia... se è lecito far ricorso a un’immagine di Isaia nell’oracolo della più struggente epifania del Signore: «Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce. Guarderai e sarai raggiante. Palpiterà e si dilaterà il tuo cuore. Verrà a te la ricchezza delle genti». Il cuore, ecco, è rimasto orfano soprattutto della gente. È rimasto orfano degli studenti nei bar, alla fine delle lezioni. È rimasto orfano delle mamme con le buste della spesa, che a ora di pranzo riportavano a casa i bambini, salendo antiche scale anche un po’ sbreccate nei gradini, dopo aver parcheggiato l’auto in una corte col loggiato intorno – perché qui, e quasi solo qui, in uno dei centri storici più estesi d’Italia, le antiche dimore erano ancora abitate da famiglie normali e non solo da banche, uffici pubblici o fondazioni. È rimasto orfano dei minimarket del centro, dei bar, delle pizzerie, dei ristoranti, dei kebab, dove, se alzavi gli occhi, sopra gli scaffali vedevi un soffitto a botte con brani di affreschi, tornati a luce in occasione di qualche ritinteggiatura, con angeli in gloria che suonavano arpe e liuti. O un rocco di colonna romana smurato e rimesso a vista dalla parete in cui era stato riutilizzato. Speriamo che la nuova l’Aquila torni a essere meravigliosamente 'vecchia'. E passino gli anni che ci vogliono: se la vita richiede questo tributo per dirsi veramente vissuta.
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