mercoledì 7 ottobre 2009
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Un ritiro di sacerdoti in un paesino della profonda campagna francese, Ars. Noto al mondo solo per un povero curato che vi fu man­dato agli inizi dell’Ottocento, quando le anime in quel villaggio erano 230. Non sono molte di più, adesso. Ars è un grappolo di case strette at­torno a un campanile e alla memoria di san Jean­Marie Vianney. Dunque, in questo paese mille sacerdoti venuti da tutto il mondo hanno ascol­tato gli esercizi spirituali predicati nell’anno sa­cerdotale dal cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna. Per sette giorni, nella pa­ce bucolica dell’Ain. Eppure, di ciò che è stato predicato a quella schie­ra di preti neri, bianchi, asiatici, qualcosa ti re­sta in mente tenacemente; come se poi le paro­le dette in quella quiete di convento dicessero molto di ciò che è vero sul mondo in cui vivia­mo. Schönborn ha esortato con forza quei mille a essere «testimoni di misericordia». Come la pri­ma vera missione, come il senso primo di quel­l’abito che portano. Non predicatori, né «buoni esempi», né prima di tutto benefattori o filan­tropi. Ma testimoni di misericordia. «Solo alla lu­ce della misericordia di Dio – ha detto il cardi­nale – possiamo guardare in faccia la nostra mi­seria. Se non c’è una percezione della miseri­cordia di Dio, gli uomini non sopportano la ve­rità. In un mondo senza misericordia tutti ten­dono ad autogiustificarsi, e ad accusare gli altri. E quando ci si accorge della nostra miseria, sia­mo tentati dallo scoraggiamento e dalla dispe­razione ». Misericordia, l’immenso amore di Dio, quell’«amore con viscere materne» che tutto sa e tutto perdona. Infinitamente più grande che la giustizia degli uomini: la giustizia secondo Dio, la giustizia che fa rinascere. Misericordia divina, che presuppone uomini che la domandino; che non ritengano di essere autosufficienti, e di non averne dunque alcun bisogno, giacché sono a­dulti, e non più “figli” di alcun padre. Ci siamo scoperti a sussultare, alle parole di Schönborn, come quando qualcuno, non cono­scendoci, ci dica qualcosa di vero di noi. Di noi in Italia, almeno. L’orizzonte di una misericordia perduta. Una ampia smemoratezza di quella e­redità cristiana in cui ci si sa capaci di male, e dunque peccatori; ma altrettanto si sa che nes­sun male è così grande, che Dio non lo possa per­donare. In questa luce si può guardarsi in faccia, così come siamo; si può, come è stato detto ad Ars, «guardare in faccia la nostra miseria». Si può sopportare la verità: su di noi e sugli altri. Invece, «in un mondo senza misericordia tutti tendono ad autogiustificarsi e ad accusare». Non c’è l’eco di questo smarrimento nella rabbia del­le invettive e controaccuse che percorre ormai cronicamente giornali e tv, come se il resto del-­l’Italia reale, il lavoro, i nostri figli, non esistesse? Un ostinato autogiustificarsi, un farisaico dirsi sempre innocenti, un puntare il dito costante­mente verso l’altro. Come in un vicolo cieco. Per­ché per ladri, impostori, bugiardi quale speran­za c’è, se tutto ormai è indelebilmente fatto; se non c’è alcuna coscienza che capaci di male sia­mo tutti, e per tutti c’è un orizzonte di miseri­cordia? Insistono coloro che si giudicano “onesti”, e ma­gari disonestamente accusano; e forse sono lo­ro i peggiori, quei farisei che sanno tutto di o­gnuno, ma hanno scordato la propria miseria. Qualcuno, molti, restano a guardare: né inquisi­tori né accusati né autoassolti, si chiedono con ansia dove andrà, un Paese avvolto in questo tur­bine rabbioso. Si chiedono che cosa è cambiato, e quale patto di fondo si è incrinato: perché ri­cordano un’Italia sì divisa, partigiana, battaglie­ra, ma nel fondo più civile e umana. Come se fos­simo caduti dentro a un altro orizzonte. Come se mancasse qualcosa. Qualcuno, forse; con cui non puoi vantarti di essere senza peccato; qualcuno a cui, alla fine, devi anche tu chiedere perdono.
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