martedì 27 gennaio 2009
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Ventisette gennaio 2009, sessanta­quattro anni dopo la fine della guer­ra. Siamo ormai, quasi tutti, di quelli che non c’erano, sotto le bombe, o sul Don, o atterriti di fronte alle prime immagini dei campi di sterminio nazisti. Noi non c’eravamo, e i nostri figli, poi, ancora più lontani da quegli anni; guardano le im­magini sfocate dei vecchi cinegiornali, sentono nominare Auschwitz, mentre il tempo, inesorabilmente, confonde e al­lontana. Ma il passato non è mai soltanto passa­to. Il passato ci riguarda, come disse il Pa­pa un giorno di quasi tre anni fa, ad Au­schwitz. Nel giorno della Memoria risuo­nano in mente le parole che Benedetto X­VI, cristiano e tedesco, pronunciò in quel «luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio». Là dove, disse, «si può resta­re solo in uno sbigottito silenzio, un si­lenzio che è un grido interiore verso Dio: perché, Signore, hai taciuto?». La Memoria della Shoah e la breve me­moria degli uomini possono faticare a ri­trovarsi, nella nostra vita che sessant’an­ni di pace e benessere hanno rivoluzio­nato. Scorre la storia di Anna Frank sullo schermo, i ragazzi la sanno già e si di­straggono; come se fosse solo un film. E questa distrazione ti sgomenta: ciò che viene dimenticato, in altri modi, in altre forme, non potrebbe forse accadere di nuovo? Occorre, è essenziale ricordare, perché non succeda ancora. È intollera­bile che invece qualcuno minimizzi, o ne­ghi addirittura, il male assoluto che l’o­locausto è stato; e ripugna profonda­mente, come ha detto ieri il cardinale Ba­gnasco, che queste cose abbia potuto dir­le un vescovo come Williamson: disso­ciarsi da esse e contestarle, è un bisogno della coscienza. Con la sua autorevolez­za di pastore portando ragioni a chi du­biti, o non sappia ancora. Occorre invece, e ogni anno che passa di più, ricordare. Sapere come, in quan­ti, su quali treni le vittime vennero por­tate alla morte. «Tu ci hai abbattuti in un luogo di sciacalli e ci hai avvolto di ombre tenebrose. Per te siamo messi a morte, stimati come pecore al macello», dice in una millenaria profezia il salmo 44. È il salmo che il Papa citò quel gior­no a Auschwitz; quasi, in quel silenzio attonito e nell’eco della domanda: «Per­ché hai taciuto?», trovando parole solo nella preghiera. Preghiera dell’Antico Testamento, ere­dità del popolo di Abramo. Perché un fi­lo profondo unisce lo sterminio del po­polo ebraico al destino dei cristiani, e Be­nedetto XVI lo ha spiegato quel giorno. «Con l’annientamento di questo popolo i nazisti intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo. Se questo popolo, semplicemente con la sua esistenza, co­stituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all’uomo, allora quel Dio doveva essere finalmente morto, e il do­minio appartenere solo all’uomo».Con la Shoah volevano strappare la radice, uccidere Dio nel popolo dell’Alleanza. Per questo l’olocausto, pure nel lungo tragico elenco di genocidi della storia, è il più terrifico: per questo Auschwitz è la notte assoluta – il luogo dove si tentò di svellere la radice. Questo vorremmo che capissero i nostri figli, svagati davanti a 'Schindler’s list' come fossero storie di un altro pianeta. Occorre sapere, e raccontare ancora ciò che scrisse la ragazza ebrea Etty Hillesum nelle sue Lettere: dei vecchi di ottant’an­ni scaricati nei campi di raccolta, di «quel ciabattare, barcollare e cadere a terra, del disperato bisogno di aiuto e delle do­mande infantili». Delle partenze dei tre­ni, di notte, verso Auschwitz: «Il lamento dei neonati si gonfia, riempie tutti gli an­goli e le fessure della baracca illuminata in modo spettrale, è insopportabile...». Dov’era Dio in quelle notti? Forse in cia­scuno di quei bambini, di quelle madri. Un Dio agnello, un Dio inseguito dai car­nefici nella carne del suo popolo antico. Memoria è ancora, per noi che non c’e­ravamo, sapere: e almeno un attimo di sbigottito silenzio, che possa farsi do­manda e preghiera.
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