Riconoscere le vittime
martedì 15 settembre 2020

Il tema della mobilità umana è inevitabile eppure divide gli animi. Se ne parlerà sicuramente nel prossimo vertice Unione Europea-Unione Africana in programma a ottobre, nei termini di una possibile regolamentazione dei flussi migratori da sud verso nord, come peraltro auspicato dall’Alto rappresentante Ue per la politica estera e la sicurezza, Josep Borrell.

Non a caso, lo scorso giugno la Comece (Commissione degli episcopati dell’Unione Europea) e il Secam (Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar), in vista del vertice Europa-Africa, avevano affermato che «i migranti e i richiedenti asilo diventano spesso vittime della proficua ma criminale attività della tratta di esseri umani, sia nei Paesi di transito che di destinazione», auspicando l’adozione di «contromisure audaci» per «assicurare la responsabilità degli autori e fornire assistenza alle vittime». A questo proposito, è utile segnalare, in ambito accademico, il contributo offerto da un gruppo di studio, presso la facoltà di Giurisprudenza della Sapienza di Roma – coordinato da Enzo Cannizzaro e da Umberto Triulzi – che ha promosso una riflessione per qualificare il traffico di migranti come crimine internazionale.

L’intento è restituire, dal punto di vista giuridico, il ruolo di vittime a chi si trova costretto a rischiare la vita per sfuggire a povertà o guerra. Prendendo atto della gravità delle condotte di quanti sfruttano tale disperazione, è necessario definire un’efficace risposta sanzionatoria nei confronti dei trafficanti dando – come scrivono gli studiosi – «un adeguato rilievo alle modalità con cui questi trasferimenti avvengono, inserendo, quale elemento indefettibile della previsione, il richiamo all’esposizione a rischio della vita del migrante, così da giustificarne l’inclusione nel catalogo dei crimini contro l’umanità e, conseguentemente, con riguardo alla possibile attivazione delle norme in materia di giurisdizione universale, consentire una risposta sanzionatoria più efficace».

La qualificazione del traffico di migranti come crimine internazionale produrrebbe una serie di conseguenze giuridiche. Sul piano della repressione penale, gli individui coinvolti nella tratta, a diverso titolo, potrebbero rispondere delle loro azioni davanti ai tribunali di qualsiasi Stato, ovvero, a certe condizioni, davanti alla Corte penale internazionale. Sul piano dell’azione della comunità internazionale tale qualificazione conferirebbe un titolo giuridico a qualsiasi Stato, anche non direttamente interessato dal fenomeno, di chiedere, o forse anche di pretendere, la cooperazione di ogni altro Stato od organizzazione internazionale. Sul piano istituzionale, essa legittimerebbe un coinvolgimento delle istituzioni internazionali, sia sotto il profilo regionale che globale, prima fra tutte le Nazioni Unite. Il lavoro di questo gruppo di studiosi potrebbe imprimere un significativo salto di qualità nella riflessione anche sul piano politico ed etico. Com’è noto, infatti, i governi del Vecchio Continente, in linea di principio, sono disposti ad accettare i «rifugiati» ma molto prevenuti nell’accogliere i «migranti economici».

Il paradosso è evidente. Se il migrante fugge dalla guerra o è perseguitato da un regime totalitario può essere accolto (qualificandosi appunto come profugo, vittima di migrazione forzata), se invece corre via da inedia e pandemie, in quanto nel suo Paese non esistono le condizioni di sussistenza, non può partire e deve accettare il suo infausto destino. La proposta formulata da questo team di studiosi, finalmente, supera la dialettica tra «rifugiati» e «migranti economici», spostando l’attenzione e il dibattito politico e sociale sul vero problema: la relazione iniqua e peccaminosa tra i trafficanti (i veri criminali) e le loro vittime sacrificali (i migranti). Per dirla con le parole del Papa, «dentro di noi e insieme agli altri, non stanchiamoci mai di lottare per la verità e la giustizia».

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