venerdì 1 febbraio 2013
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In questi giorni i mafiosi godono osservando le accuse e controaccuse al veleno che attraversano il mondo dell’antimafia. Assurdo e paradossale. Quando i mafiosi si sparano, qualcuno sempre commenta soddisfatto «Si ammazzano tra di loro». Questa volta tocca ai boss commentare soddisfatti «Si ammazzano tra di loro». Ingroia contro Grasso. Grasso contro Ingroia. Boccassini contro Ingroia. Ingroia contro Boccassini. Saviano contro Ingroia. Ingroia contro tutti. Certo con toni e modi diversi. C’è chi, come l’ex pm di Palermo, ha attaccato a freddo, e chi si è difeso. Con le prese di posizione, da una parte e dall’altra, di nomi legati a icone dell’antimafia, da Salvatore Borsellino a Maria Falcone e a Franco La Torre. È una gara a chi è più antimafia, facendosi forza in modo spesso stonato, coi nomi di Falcone e Borsellino. Accusando e denigrando l’altro. Col quale, magari, fino a pochi mesi fa si è collaborato proprio nel nome dell’antimafia. Inchieste, manifestazioni, convegni. Fianco a fianco. Citando, denunciando, e promettendo una lotta convinta e compatta alle mafie. Ora, invece, veleni e invettive. L’un contro l’altro. Per un pugno di voti. Non contro le mafie ma contro i vecchi compagni di lotta antimafia. Quanta ipocrisia... Questa campagna elettorale ha visto, per la prima volta, una gara al candidato antimafia. Nessuna lista esclusa. Bene. E bene anche la gara a chi ha le liste più pulite (anche se qualche nome "impresentabile", non solo minore, è purtroppo rimasto). Ma sempre gara è. Invece la lotta alle mafie, come dicevano Falcone e Borsellino (ci permettiamo di citarli anche noi...) o è di tutti o non è. La mafia non ha colore politico, come ci ha ripetuto più volte un giovane e bravo magistrato come Raffaele Cantone che ha detto "no" alle lusinghe della politica («Penso di poter ancora dare impegno e sacrificio al mio lavoro»). Ma anche l’antimafia non deve avere colore politico. Il tema del contrasto alla criminalità organizzata è tra i pochi che non può e non deve avere appartenenze. E invece è gara e veleni. Con possibili gravi conseguenze. Spesso gli uomini e le donne in prima linea contro la mafia si lamentano che i cittadini non collaborano o non collaborano abbastanza, non denunciano, non si fidano delle istituzioni. Tuttavia, seppure a fatica, grazie all’impegno e al sacrificio di tanti magistrati e inquirenti - silenziosi, umili ed efficienti lavoratori della Giustizia - questa fiducia è stata trovata ed è cresciuta e, con essa, il muro dell’omertà e della complicità ha cominciato a sgretolarsi. Ma l’immagine di questi giorni, lo stucchevole scontro continuo sul fronte dell’antimafia, quel rivendicazionismo ("sono più antimafia io", "sono io l’erede") rischia di immiserire il cammino fatto e di riportarci indietro. Qualcuno, allora, tra i più condizionabili, potrebbe tornare a rivolgersi alle mafie, alla loro granitica seppure opprimente compattezza. Come dargli torto? Come sempre tra due litiganti il terzo gode... soprattutto se mafioso. Citiamo ancora, e ci sembra proprio il caso, Giovanni Falcone. «Credo che ognuno di noi debba essere giudicato per ciò che ha fatto. Contano le azioni, non le parole. Se dovessimo dar credito ai discorsi, saremmo tutti bravi e irreprensibili». Già, chiacchiere e concretezza. Come quella di tanti magistrati, investigatori, sacerdoti, giovani di cooperative e associazioni, imprenditori. Non solo "anti" ma "per". Per la giustizia, la verità , la dignità, i diritti, la libertà dalle mafie. Nel giorno per giorno. Senza proclami solo mediatici. Senza rivendicare primogeniture o primazìe. Perché può far più male e più danno la parola del kalashnikov. E in questi giorni di parole ne sono state sparate davvero troppe. Un po’ di silenzio, per favore. Un po’ di operoso silenzio al servizio della legalità. L’esatto contrario di ogni omertà, di ogni frastuono autolesionista. Quello che chiedevano Falcone e Borsellino. Le mafie lo temono, come temono l’unità della gente per bene. Perché è questo che le sconfigge.​​
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