mercoledì 13 novembre 2013
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Con le sue mani ci ha fatto dal fango, dalla terra... Sono le mani di Dio che ci hanno creato. Come un artigiano, ci ha fatto. Queste mani del Signore, le mani di Dio, che non ci hanno abbandonato». Pare di poterle vedere, nelle parole della omelia a Santa Marta, le mani di cui parla il Papa. Mani poderose e grandi, eppure delicate: capaci di disegnare il volto dell’uomo nelle sue infinite sfaccettature, nei tratti di ogni diversa etnia, nello sguardo e nella espressione – eppure, ogni volta a immagine di Dio. Dalla materia greve, di tutte la più umile, che è il fango, quelle mani hanno tratto l’uomo, con passione e cesello di artigiano; che non fabbrica in serie, che non produce moltitudini di automi su catene di montaggio, ma solo e rigorosamente un uomo alla volta, uno solo. E viene in mente la mano michelangiolesca di Dio, nella Cappella Sistina, che sfiora quella di Adamo: e accende ciò che era fango di vita. Occorre una fede ereditata e tramandata da generazioni, per poter parlare con tanta concretezza di Dio agli uomini che oggi noi siamo. Uomini cresciuti nella logica industriale che produce tot pezzi tutti uguali all’ora; ma già contagiati dall’era del virtuale, e prossimi a confondere la realtà con ciò che su uno schermo ne appare. Invece ecco, nell’Anno della fede che Benedetto XVI ha indetto prima di ritirarsi, ci arriva quest’uomo "dalla fine del mondo", e che però ha una famiglia originaria delle stesse colline da cui venne don Bosco; e una fede ereditata dai nonni, trapiantata e quasi rinvigorita oltre l’oceano attraversato. Le mani di cui dice il Papa, sono le mani dei migranti italiani che partivano per l’America, capaci di lavoro duro di badile o della finezza dei tessitori e degli orafi. Bergoglio parla di qualcosa che ha visto e sa bene, anzi a memoria; ma la cosa singolare è che trova modo di farsi capire anche dai ragazzi cresciuti davanti alla tastiera delle playstation. Che lingua parla il Papa? Una lingua antica e che pure abbiamo nella nostra memoria, come qualcosa di innato. È la lingua che si riferisce ai gesti con cui l’uomo cresce: «Come un padre con suo figlio, Dio ci insegna a camminare». Mani, ancora: quelle che ognuno ha sperimentato nei primi passi barcollanti, quando ci si regge appena in piedi ma, afferrando la mano del padre o della madre, l’equilibrio si compie, e si comincia a camminare. E allora, ebbri di gioia, si crede di esserne già da soli capaci, e da quella mano ci si stacca. E subito si cade. E subito ancora quella mano torna a cercare la nostra, e a rialzarci. Mani possenti, che non abbandonano mai, eppure segnate da una piaga profonda (Francesco: «Gesù ha portato con sé le sue piaghe, e la fa vedere al Padre»). Mistero, la divina ferita che non si rimargina. Ma proprio quelle mani crocifisse sono le sole che possono accompagnarci nel dolore e nel buio; anche le mani di quel silenzioso compagno sanguinano, come i vinti, gli sconfitti, gli annientati. Quelle stesse mani però sanno guarire. Come la mano di Cristo nella Resurrezione di Lazzaro di Caravaggio, che mite ma imperiosa pare ordinare all’uomo già terreo di morte, già ombra degli inferi: «Lazzaro, torna indietro». E ancora oggi noi, uomini del tempo del virtuale, siamo capaci davanti a quella tela di restare muti – come tacendo di ciò di cui non osiamo parlare. Come si tace di una profonda, audace speranza. Speranza di non essere soli, o frutto di un caso, o singolare evoluzione intelligente di grumi di molecole primordiali; ma figli invece, figli veramente. E come figli bambini chiamati, nei passi primi incerti, semplicemente a tendere la mano; perché un’altra, forte e tenera, e viva eternamente, ci dice il Papa, la afferri.
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