sabato 14 settembre 2013
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Possiamo dirlo? Di veramente nuovo, nella "Carta della laicità", fatta distribuire nelle scuole francesi dal ministro Vincent Peillon, non c’è nulla; nulla che già non sia disciplinato per esaltare la laïcité repubblicana, applicata con acribìa al mondo della scuola. Nel 1994 le Istruzioni ministeriali motivano la proibizione dei simboli religiosi con l’intento di non "frantumare la nazione", perché la nazione "è una comunità di destino"; il «Rapport sur la laïcité» elaborato da Bernard Stasi nel 2004 conferma la coerenza del divieto: su questo rapporto si è fondata la Legge dello stesso anno che vieta di portare segni o simboli religiosi (velo, crocifisso, stella di Davide) se non di piccola misura. Di recente, sfidando il ridicolo, s’è esteso il divieto anche ai genitori che accompagnano i figli nelle gite scolastiche.Una cosa nuova, però, c’è nella "Carta della laicità": si sono elencati i princìpi della laïcité in una sorta di summa, quasi uno strumento pedagogico per i ragazzi e le ragazze di Francia, da far conoscere anche ai loro parenti. Ne è derivato un manifesto di sapore ottocentesco con cui lo Stato chiede ai giovani di spogliarsi di sé stessi, delle proprie idee, degli orientamenti religiosi o ideali, non appena s’avvicinano e entrano a scuola, perché questa (come la Nazione) non accetta manifestazioni identitarie, proselitismi di alcun genere: tutto ciò divide, macchia la neutralità, mette a rischio la formazione giovanile. Alcune frasi della Carta sono solo declamatorie, come se la laicità fosse all’origine d’ogni bene, e qualcuna è ossessivamente diretta a proibire ogni manifestazione di convinzioni politiche o religiose.Così, un pezzo d’Ottocento si risveglia, pretende i suoi diritti, ignora l’evoluzione che s’è avuta da allora a oggi, fino alle Carte dei diritti umani, proprio sul tema della laicità. La nostra laicità ha ripreso, invece, non poco della tradizione americana: è positiva, non arcigna, non chiede di spogliarsi di alcunché, rispetta le identità di tutti, nella convinzione che proprio dall’intreccio di queste identità deriva l’integrazione fra tradizioni e culture. Ma chi viene dal passato insiste, riesuma la cultura del citoyen, figura astratta che ha diritti astratti, non può unirsi in associazioni, non può esternare, se non nelle mura del tempio, convinzioni religiose.Lo spazio pubblico è inibito, nella scuola non c’è presenza o cultura religiosa, e la storia è un susseguirsi di date e di nozioni, che dev’essere privata dell’anima, dei suoi conflitti e conquiste, dell’evoluzione etica e spirituale che ha vissuto: ridotta a una pagina bianca in cui si vedono solo i progressi della scienza (ma senza i suoi contrasti), della tecnica e, con molta prudenza, dell’arte. Voltaire e Diderot approverebbero, ma neanche tutto, considerate la curiosità e la ricchezza intellettuale che li caratterizzava.Occorre però fare attenzione. La Francia non è come sembra raffigurata nel documento di Peillon: è il Paese della cultura che tutti noi conosciamo, delle grandi dispute, e la stessa laïcité s’è evoluta, al punto che in Francia è operante la più grande rete di scuole private finanziate dallo Stato, che raccoglie il 16% della popolazione scolastica nazionale, ed è per la maggior parte a gestione cattolica. Nicolas Sarkozy esaltò, in un suo discorso da presidente a Roma nel 2007, il ruolo del cattolicesimo nella storia francese e avviò un tracciato di incontri con l’islam per favorire la sua integrazione. Dunque, il passato laicista non divorerà la modernità: è impossibile, soprattutto nell’epoca segnata dal Web, dalla circolazione di uomini e idee per mille rivoli, e ancora e sempre dall’universalismo cristiano rinvigorito dal ruolo dei Papi che si recano in ogni angolo del pianeta per incontrare i giovani, le donne, gli uomini, i diseredati della terra. Colpisce però, ed è negatività rischiosa, che questo deteriore neo-illuminismo  si risvegli proprio quando si dispiega il fenomeno di globalizzazione delle culture, che sta mischiando le pagine della storia e le popolazioni sull’intero pianeta. L’interculturalità chiede visibilità, accettazione d’identità, purché nel pieno rispetto dei diritti umani, chiede accoglienza di simboli e presenza pubblica delle religioni. Eppure c’è chi vuole misurare i simboli col centimetro come per misurare la libertà: ma la libertà concessa col centimetro è la parodia d’una piccola tirannide. Sta qui il confine tra un passato che non può tornare neanche se lo vogliono i nostalgici, e un presente che chiede altro impegno, altri ideali che spingano in avanti i giovani a costruire il loro futuro.
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