martedì 3 marzo 2009
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Vinceranno i guelfi o vinceranno i ghibellini, nella partita che ha per oggetto l’approvazione di una legge sulla fine della vita umana? Se impostiamo così la questione, come sempre più di frequente sembra che avvenga, una cosa sola è certa: chiunque vinca, sarà la bioetica a perdere, perché le ripugna ridurre nei confini soffocanti dell’ideologia questioni come l’autodeterminazione, l’accanimento, l’abbandono terapeutico, il destino della medicina nell’età della tecnica. Spiace perciò dover prendere atto dell’acredine e perfino dell’aggressività con cui molti laicisti (ma non tutti!) cercano di riportare il dibattito sorto a seguito della vicenda Englaro alla stanca, esasperante e infondata conflittualità tra cattolici e laici. È indubbio che i temi legati alle questioni giuridiche sulla fine della vita umana sono di quelli che dividono: non dividono però per ragioni confessionali, ma per la diversa valutazione della configurazione etica che vengono ad assumere nel mondo d’oggi le trionfanti tecniche biomediche. Questo è il cuore del problema ed è un problema strettamente bioetico e non religioso, come dimostra il fatto che in bioetica ogni riferimento alla Scrittura, ai dogmi, ai Concili, al magistero della Chiesa viene sempre dopo un buon uso della comune e condivisa ragione morale. E valga il vero. Non perché sia ripugnante alterare il progetto di Dio sulle sue creature che si deve dire di no all’eugenetica, ma per la rischiosissima alterazione dell’eguaglianza alla nascita tra gli uomini che essa porta inevitabilmente con sé. Non perché sia sacra a Dio, non per compiacere i credenti, la vita va difesa nelle moderne democrazie, ma perché è indispensabile limitare il potere biopolitico dello Stato. Non perché si voglia difendere col codice penale il proprio credo religioso (questa è l’affermazione, quasi offensiva, che fa Nadia Urbinati su 'Repubblica' del 2 marzo) che si deve dire di no a qualsiasi forma, esplicita o implicita, di eutanasia, ma perché questo no sta alla base della plurisecolare, laicissima medicina ippocratica e del principio di garanzia che la sostiene. La laicità non consiste nel ridurre lo Stato a mero e freddo garante formale della coesistenza sociale, ma nel riconoscergli tra le tante funzioni quella preminente di garantire un’etica pubblica oggettiva e condivisa, che ha la sua sostanza in un fermo sì alla tutela dei diritti umani e in un no, altrettanto fermo, alla pena di morte, al commercio di organi, alle mutilazioni sessuali, a qualsiasi manipolazione non terapeutica del corpo umano, anche se liberamente volute da persone adulte, informate e consenzienti, pienamente in grado di autodeterminarsi. In questo senso deve muoversi una buona legge sul fine vita. Tutti, cattolici e laici, devono battersi perché in essa non vengano a confondersi la sfera del diritto e quella della religione (il 'reato' con il 'peccato'). Ma tra le due sfere, che vanno tenute accuratamente separate, c’è quella della bioetica e questa sfera, investendo problemi di relazionalità sociale, non può essere messa tra parentesi o venir ridotta al formalismo del diritto, soprattutto da parte di uno Stato democratico. Ha ragione la Urbinati quando ripete (peraltro stancamente) che la democrazia non può presumersi infallibile, né può pretendere di possedere certezze assolute. È giustissimo che la democrazia sia portata a dubitare costantemente di se stessa e sia sempre pronta a ritornare sui suoi passi. Se è doveroso dubitare sempre della fondatezza del nostro modo di pensare il bene, non si è però legittimati a dubitare che il bene esista e a rinunciare ad ogni impegno per realizzarlo. A meno di non volersi riconoscere come nichilisti. Temo però che per molti laicisti le cose stiano davvero così, anche se non vogliono ammetterlo esplicitamente.
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