Quel vento da Oriente
giovedì 19 novembre 2020

Il vento della globalizzazione soffia oggi da Oriente. La creazione della più grande area di libero scambio del mondo (Rcep) che unisce 15 Paesi del Sud Est asiatico e del Pacifico ne costituisce l’ultima conferma. È una tendenza in corso da tempo, particolarmente vistosa negli ultimi anni. Il recente accordo riempie infatti un vuoto lasciato da altri. Dopo aver lanciato grandi progetti di cooperazione commerciale transatlantica ( Ttip) e transpacifica ( Tpp), gli Stati Uniti d’America hanno poi abbandonato entrambi e l’iniziativa promossa dai Paesi del Sud Est asiatico (Asean) è stata raccolta da Paesi importanti come l’Australia, il Giappone e, soprattutto, la Cina.

La creazione di questa grande area di libero scambio, superiore anche a quella della Ue, svela dunque l’altra faccia della recente politica americana, iniziata prima di Trump ma portata da Trump all’esasperazione. Benché mascherata da toni aggressivi, è una politica di ripiegamento e disimpegno dalle grandi questioni del mondo contemporaneo.
Lo mostra anche il duro scontro commerciale avviato dal presidente uscente con la Cina che, ostacolando le forme di scambio e di interdipendenza, spinge verso il cosiddetto decoupling e cioè il 'disaccoppiamento' delle due economie. Risultato: la Cina si allontana dai mercati occidentali per integrarsi maggiormente in quelli asiatici. Si va così vero la creazione di grandi blocchi continentali sempre più lontani e contrapposti, con crescenti divergenze economiche che si innestano sulle differenze storiche e culturali, accentuandole e radicalizzandole.

Il XXI secolo sarà il secolo dell’Asia? Lo storico Niall Ferguson lo prevede con sicurezza, esaltando il passato occidentale del mondo e deprecandone il futuro orientale. Ma serve poco rimpiangere ciò che non è più e maledire ciò che sarà. Meglio confrontarsi con il presente e con le opportunità che offre. Che il Sud Est asiatico e l’area del Pacifico siano in questa fase storica particolarmente dinamici non significa necessariamente che sostituiranno l’Occidente in una complessiva egemonia mondiale. Molto dipende da come si comporterà quest’ultimo. È illuminante la scelta fatta dagli Stati Uniti negli anni Settanta del secolo scorso, quando, dopo la sconfitta in Vietnam e la forzata rinuncia al ruolo di cardine dell’economia mondiale, presero coscienza del loro indebolimento. Lanciarono una politica nuova e avviarono un intenso dialogo con la Cina, allora in preda alla Rivoluzione culturale e assai più inquietante di oggi. Fu una scommessa arrischiata, ma vincente.

Quell’azione ha fatto uscire la Cina da una situazione terribile, l’ha incoraggiata a 'normalizzarsi', ne ha favorito l’inserimento nelle organizzazioni internazionali. Ne è conseguito che, negli ultimi decenni, i cinesi hanno adottato molti aspetti della 'modernità americana' e ancora oggi la classe dirigente manda i suoi figli a studiare in America. Si sperava di più? Certo, la Repubblica popolare cinese non si è 'democratizzata' secondo i modelli occidentali. Ma non è un buon motivo per buttare via i successi ottenuti: a che serve, per esempio, rendere la vita difficile agli studenti cinesi negli Stati Uniti togliendo loro la possibilità di usare il loro social preferito, Wechat? Oggi più che mai, non è nell’interesse dell’Occidente accentuare le distanze e alimentare i conflitti, come sottolinea l’anziano Henri Kissinger che raccomanda a Joe Biden e Xi Jiping di incontrarsi al più presto per decidere insieme che i loro contrasti, per quanto gravi, non porteranno alla guerra.

Sembra che Donald Trump voglia avvelenare i pozzi e rendere molto difficile la vita al suo successore, ritirando i soldati americani dove sono cruciali per la stabilità, inasprendo i rapporti con la Cina o aggredendo l’Iran. Così facendo, però, non danneggerebbe solo Biden, ma soprattutto il suo Paese e tutti noi. Non esistono alternative alla globalizzazione. Tutta la storia dell’umanità è stata attraversata da spinte verso la creazione di legami di interdipendenza tra popoli, aree, culture diverse. Ma la globalizzazione può assumere molte forme diverse. Negli ultimi decenni, l’abbiamo pensata in termini di élite cosmopolitiche, di concentrazioni finanziarie o di imprese multinazionali, trascurando la politica, i popoli, le civiltà. I risultati non sono stati positivi. Meglio ripensarla nella prospettiva della Fratelli tutti.

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