domenica 8 febbraio 2009
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A ssomiglia a uno sfregio irriverente e sguaiato, che brucia come sale sulle ferite che l’hanno preceduto. Così l’hanno vissuto i cristiani d’Orissa che, lentamente e timidamente, stanno tornando nei loro villaggi da dove erano fuggiti per scampare alle persecuzioni degli estremisti. Sulle rovine della chiesa di Batticola, data alle fiamme nell’agosto scorso, si è cominciato a costruire un tempio indù. C’è qualcosa di volutamente simbolico in tale gesto. Come si ricorderà, il massacro dei cristiani in India era cominciato nell’agosto scorso dopo l’uccisione del leader estremista Swami Laxmanananda Saraswati, un omicidio politico attribuito alla minoranza di fede cristiana benché fosse stato rivendicato dai maoisti. Secondo i radicali indù, l’eliminazione del loro capo era stato deciso nel villaggio di Batticola, nel distretto di Kandhamal. Fu la scintilla di un terribile pogrom anti-cristiano, il cui bilancio, ancora provvisorio, parla di 500 morti, 4.600 case distrutte e 54mila sfollati. Centinaia di chiese sono state bruciate e ridotte in macerie. Costruire un tempio indù proprio sulle rovine della chiesa di Batticola rappresenta la chiusura del cerchio nella folle logica degli estremisti: là dove tutto è cominciato con il presunto complotto anti-indù, tutto deve finire con un marchio di rivalsa e superiorità. Come dire che alla distruzione va aggiunta l’umiliazione. È un bruttissimo segnale che per noi, cristiani d’Occidente, suona come un campanello d’allarme. In molti speravano che le persecuzioni anti­cristiane in Orissa fossero messe sotto controllo dopo più di tre mesi di violenze. C’era stata la ferma condanna del Parlamento europeo e di alcuni governi continentali, decisi a raccogliere il grido di dolore del Papa e della Chiesa universale. C’era stato, sia pur tardivamente, il richiamo della Corte Suprema dell’India al governo dell’Orissa, invitato a dimettersi nel caso non riuscisse a proteggere le minoranze. Colpita al cuore dagli attacchi terroristici compiuti a Mumbai, l’India ha cercato di ripristinare l’immagine di Paese tollerante e rispettoso delle fedi religiose non maggioritarie promettendo giustizia e garantendo il rientro nelle loro case degli sfollati. Ma siamo ancora ben lontani dal ripristino delle condizioni minime di vivibilità per i fedeli dell’Orissa. Chi osa tornare nei propri villaggi è sottoposto a ogni sorta di minacce e di discriminazioni, a meno che non si converta all’induismo. In una recente intervista all’agenzia «AsiaNews», una delle prime vittime del pogrom, padre Edward Sequeira, sopravvissuto alla furia degli estremisti che hanno tentato di bruciarlo vivo, racconta la solitudine e la disperazione in cui versano oggi i cristiani del distretto di Kandhamal. «Il pogrom è stata la personificazione del male. Ma ancora adesso la situazione è molto grave. La nostra gente non può tornare a casa, in molti villaggi viene loro proibito di praticare la fede. Molti temono di essere di nuovo nel mirino dei violenti. Non è stata presa alcuna decisione seria per prevenire gli attacchi, proteggere le proprietà e salvare le vite dei cristiani. I colpevoli delle atrocità circolano impunemente in mezzo a noi. Come possiamo sentirci al sicuro?». È una domanda che interpella 'la più grande democrazia del mondo', come solitamente viene definita l’India. Ma è rivolta anche a molti di noi, frettolosi nell’archiviare una tragica stagione di violenze e persecuzioni, che in realtà non si è per nulla conclusa.
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