domenica 9 giugno 2013
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Con la morte del capitano Giuseppe La Rosa è salito ieri a 53 il numero dei caduti italiani in Afghanistan a partire dal 2004, cioè da quando fu varata la missione internazionale Isaf. La Rosa è il primo soldato italiano ucciso nel 2013; prima di lui, il 25 ottobre 2012, era caduto in uno scontro a fuoco il caporale Tiziano Chierotti. Il 24 maggio, inoltre, è stata gravemente ferita in un attentato Barbara De Anna, l’italiana che lavorava a Kabul per l’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni).Vittime per le quali il Papa ha chiesto una preghiera silenziosa domenica scorsa in un toccante momento dell’Angelus. Il capitano è stato ucciso da una bomba a mano lanciata all’interno del blindato su cui viaggiava, insieme con altri tre commilitoni, al rientro da una missione di addestramento dell’esercito afghano. E se fa impressione la morte violenta di un giovane uomo che aveva la vita davanti (La Rosa aveva 31 anni e si era appena laureato) e che si trovava in Afghanistan per aiutare gli afghani a costruire un Paese efficiente e democratico, ancor più impressione fa la notizia arrivata poco dopo l’attentato: e cioè, che a scagliare l’ordigno è stato un bambino di 11 anni, evidentemente istruito (per non dire addestrato) dalla vigliaccheria crudele di qualche adulto. Il coinvolgimento dei bambini nelle azioni militari o terroristiche che si svolgono in Afghanistan è un dato accertato da tempo. Secondo le agenzie delle Nazioni Unite, 1.756 minori sono stati feriti o uccisi (alla media di quasi 5 al giorno) nel 2011. Solo poche settimane fa, nell’Est del Paese, 11 bambini di età compresa tra 1 e 7 anni sono morti nel crollo di una casa colpita dalle bombe della Nato. Ma le agenzie avvertono anche che, nello stesso 2011, almeno 316 bambini e ragazzi sono stati identificati mentre venivano usati dagli insorti come staffette o combattenti, se non addirittura, e non di rado, come kamikaze. Questa realtà, unita allo stillicidio dei caduti, può anche far pensare che la presenza occidentale militare e civile, nei dodici anni seguiti alla cacciata dei taleban, non abbia lasciato il segno positivo in cui speravamo. Non è così. Spiegarlo non è facile perché spiegare l’Afghanistan non è facile. La sicurezza resta un problema drammatico e la corruzione pare crescere di anno in anno. Ma all’inizio degli anni Duemila quasi il 60% della popolazione viveva sotto l’indice della povertà e l’aspettativa di vita era intorno ai 40 anni. Allora la percentuale delle ragazze che andavano a scuola era prossima allo zero, oggi sfiora il 40%. Allora i taleban giustiziavano chi veniva sorpreso ad ascoltare la musica, oggi opera nel Paese una leva piccola ma agguerrita di giornalisti liberi e appassionati, che non a caso sono presi di mira dai terroristi. Questi dodici anni, con tutti gli errori e i lutti che li hanno segnati, sono comunque serviti a spargere i semi di un Afghanistan diverso e possibile. A circa un anno dal ritiro totale di tutte le truppe straniere, è chiaro che toccherà soprattutto agli afghani trasformarlo da ipotesi in realtà. A noi, oltre a quello di aiutarli, anche il compito di non spargere mediocri illusioni. Si diceva dei bambini nel conflitto. Nel 2012, la superficie coltivata a papavero da oppio è cresciuta del 18% rispetto al 2011. E secondo le analisi dell’Onu, laddove tale coltivazione è bandita il 90% dei villaggi ha una scuola maschile e il 75% una femminile; laddove la coltivazione prosegue, le percentuali crollano al 61 e 19%. Anche questa è una realtà nota. Ma in tanti anni nessuno è riuscito a trovare il modo di eliminare il papavero senza ridurre alla fame milioni di contadini. Cambiare la mentalità di un popolo, costruire uno Stato, abituare alla democrazia e avviare allo sviluppo. Troppo, anche per dodici anni d’impegno. Ma indietro non si può e non si deve tornare. ​​​
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