martedì 4 agosto 2009
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Le polemiche per l’introduzione della Ru486 in Italia non sono legate soltanto a un metodo abortivo, ma mettono in gioco ancora una volta il rispetto della legge, la deontologia medica, il significato della libertà di scelta. L’approvazione da parte dell’Agenzia di farmacovigilanza (Aifa) è subordinata a un uso della pillola abortiva esclusivamente in regime ospedaliero, come dichiarato da quegli stessi dirigenti dell’Aifa che pure hanno ritenuto un atto dovuto introdurla nel nostro Paese. Perché sia rispettata la 194 la delibera finale – a detta del direttore dell’Aifa – indicherà per la procedura di aborto farmacologico un ricovero ospedaliero fino a espulsione avvenuta: quindi da un giorno e mezzo a circa quattro. Ma in nome dell’autodeterminazione della donna, e addirittura della salvaguardia del rapporto medico-paziente, i sostenitori più convinti della pillola hanno subito messo in campo una violenta polemica proprio contro questa modalità di ricovero, accusando di voler tenere forzatamente in ospedale le donne che richiedessero la Ru486: si agita lo spettro del ricovero coatto, insomma, contrapposto alla libertà di scelta che coinciderebbe con la possibilità di tornare a casa – volendo – dopo la somministrazione dei farmaci abortivi. Ma in Italia esiste già la possibilità per tutti di firmare le dimissioni volontarie dall’ospedale. Da tempo, secondo certa stampa, pare invece che la prima preoccupazione di chi si ammala sia la possibilità di rifiutare le cure, anche salvavita. Adesso vediamo pure spuntare l’urgenza di sottrarsi a un ricovero in ospedale. Il giudice Amedeo Santosuosso, protagonista della battaglia giudiziaria su Eluana Englaro, sulla Ru486 ha affermato ad esempio che «non è stabilito da nessuna parte che la maggior tutela della paziente si realizzi solo in ospedale e non, anche, in uno sperimentato regime di day hospital». Anche Mario Riccio, il medico che ha sospeso la ventilazione a Welby, ha rilasciato dichiarazioni analoghe. E invece proprio sull’aborto con la Ru486 il più autorevole consesso medico italiano, il Consiglio superiore di Sanità, in ben due pareri – 2004 e 2005 – ha indicato che «la donna deve essere trattenuta fino ad aborto avvenuto» in ospedale, vista l’impossibilità di prevedere il momento dell’espulsione dell’embrione, e considerati i rischi del metodo chimico rispetto alla procedura chirurgica. È significativo che fra i più convinti sostenitori dell’inutilità del ricovero per aborto da Ru486 ci siano coloro che in prima fila si sono battuti per il ricovero di Eluana in una struttura pubblica – un ricovero forzato, quello sì, visto che Eluana non lo aveva mai chiesto – per porre fine alla sua esistenza. Un ricovero per morire accompagnato da un dettagliato protocollo medico stilato dai giudici della Corte di Appello di Milano, che stabilirono anche nei minimi particolari come si dovesse sospendere alimentazione e idratazione, consigliando – è bene ricordarlo – i dosaggi di sedativi o antiepilettici, l’umidificazione delle mucose, la cura dell’igiene del corpo e dell’abbigliamento. Evidentemente i soli protocolli medici indiscutibili sono quelli scritti dai giudici, e non quelli indicati dalle massime autorità competenti in materia, sulla base delle evidenze scientifiche e cliniche, e neppure quelli consentiti da una legge dello Stato come è la 194. Non è possibile appellarsi all’autorità medica e scientifica a giorni alterni, a seconda delle convenienze, e non si può accettare che la salvaguardia del rapporto medico­paziente, e la libertà di scelta delle cura e delle terapie, siano utilizzate come grimaldello, ancora una volta, per modificare surrettiziamente le leggi vigenti, attraverso sentenze, procedimenti amministrativi o prassi inaccettabili.
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