venerdì 24 luglio 2009
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Sul lago Maggiore, una sera in piena estate, giungo in quel locale sulla riva, moderno e invitante, e chiedo semplicemente una tagliata di carne. Dopo un quarto d’ora arriva una 'mappazza' inondata da una salsa con dei pomodorini. «Ma avevo chiesto una tagliata», dico al cameriere. «È questa – mi risponde –: sa, il cuoco è cinese». Eppure pochi giorni prima avevo letto che la miglior carbonara di Roma la fa un tunisino: non è quindi un problema di nazionalità del cuoco, bensì di 'moralità' in cucina. Mi sono emozionato, qualche mese fa, ad assaggiare la panna cotta di Gian Bovio di La Morra, ma se mi guardo indietro vedo una massa di panna cotta industriale che risulta ben lontana dall’originale. E che dire delle lasagne alla bolognese condite con le sottilette o dell’amatriciana che non conosce il guanciale? Quando sono stato a Norcia, m’hanno fatto le pennette alla norcina: un piatto che con quel nomignolo giustifica qualsiasi ingrediente. E invece la ricetta originale prevede ricotta, pancetta, pecorino, olio, sale e pepe. Quanti esempi si potrebbero fare dei falsi alimentari: non solo dei prodotti, ma anche dei piatti nostrani che sono poi un simbolo di attrattiva in tutto il mondo. Il turismo enogastronomico è un valore certo per l’Italia, lo dicono le statistiche; ma se qualcuno rema contro questo patrimonio collettivo che fa scappare i giapponesi e appiattisce la proposta gastronomica, qualche provvedimento si deve pur prendere. Ad Alessandria, la città in cui vivo, l’Associazione commercianti ha creato il marchio tipico dei ristoranti, seguendo un progetto della Fipe a livello nazionale. La stessa cosa hanno fatto a Perugia, a Parma e in qualche altra città. In sostanza, dietro al marchio c’è il rispetto di un disciplinare che prevede, nel menu, almeno cinque piatti da ricette della cucina locale, e soprattutto con i prodotti che connotano quel territorio. Per cui diventa un atto deplorevole non servire il Parmigiano 'in punta', o il culatello in un piatto con altri salumi. Ma c’è di più: il ministro Zaia lo sa, e a lui tocca togliere dai cassetti dei burocrati del ministero quella traccia che consente ai Comuni di vergare la De.Co., la denominazione comunale. Non è un marchio questo, ma una semplice delibera che riconosce un prodotto o un piatto identitario di una comunità. Al mio paese, Masio, lo hanno fatto su una frittella di patate ed erbe di campo cotta sulla pietra (i subrich), mentre a Valpelline, proprio in questi giorni, festeggiano la seupa a la Vapelenentse, che è un piatto povero a base di pane raffermo, Fontina, brodo, ortaggi che oggi connota la gastronomia della Val d’Aosta. Perché hanno fatto la De.Co.? Per andare all’origine di un piatto, che poi racconta una storia di economia e di sapienza. In questo caso di economia della Fontina, che proprio in quel Comune ha la sua stagionatura; di sapienza, perché la povertà e la fame sono state le madri della nostra cucina tipica che ci appare, oggi, quanto mai geniale. Allora l’auspicio è che ogni Comune deliberi la propria De.Co. perché l’Italia lunga e stretta è questo: una storia di saperi che si sono intrecciati e contaminati e che rischiano d’essere mal copiati, se escono dall’alveo della propria identità. È una sfida che credo possa essere raccolta proprio da questo ministero: sarebbe un fatto storico; sarebbe, al contrario del dirigismo amministrativo, un invito alla partecipazione popolare per difendere l’identità di un patrimonio immenso: il gusto.
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