mercoledì 4 marzo 2009
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Caro Direttore, non voglio fare la saputella, ma ultimamente – durante la lettura dei giornali – rimango sempre più perplessa nel constatare quanto vi siano diffusi gli errori ortografici, lessicali, sintattici ecc. Né le cose vanno meglio quando si naviga in rete, anzi mi sembra che la sostanziale grossolanità del linguaggio corrente nella galassia di siti, forum, chat, social network e via dicendo ( che pur, nel bene e nel male, hanno creato tanta nuova informazione) abbia « contagiato » anche la carta stampata, un tempo bastione della bella scrittura e del corretto italiano. Certo, nella fretta con cui immagino si lavori nei quotidiani, qualche errorino può facilmente scappare. Però perseverare è diabolico, soprattutto disponendo di strumenti un tempo inesistenti, come i programmi elettronici di correzione. Ma soprattutto, un sintomo del degrado dell’attuale mestiere giornalistico è la contaminazione da parte di espressioni gergali, diffuse, ma errate: per esempio, è divenuta d’uso comune l’espressione « il fine settimana » per indicare il weekend, il termine della stessa, anziché « la fine settimana » , come sarebbe esatto scrivere. Insomma gli errori, per di più grossolani, anziché essere corretti ed evitati, fanno testo. Anche fra i giornalisti...

Antonia Giardini Milano

Che dire, gentile signora Giardini? Come consolarla di certi marchiani strafalcioni tramandati – purtroppo – a mezzo stampa? Del resto lo stato della nostra illustre lingua nazionale ( fra le più studiate all’estero) risulta lamentevole fra le mura patrie e – cosa oltremodo sconfortante – nelle redazioni, dove lavorano persone per le quali l’italiano è ( o dovrebbe essere) uno strumento professionale, come per il medico lo stetoscopio. Eppure... lo scrittore Ennio Flaiano, con l’insuperabile e caustico umorismo che gli era peculiare, ebbe ad osservare – in anni in cui la scuola funzionava bene e la volgarità non era ancora un patrimonio di massa – che « l’italiano è una lingua parlata dai doppiatori » , ovvero sconosciuta ai più, all’uso quotidiano della società, all’abitudine della moltitudine. La lingua « pura » – quella codificata da dizionari e accademie – nella vita reale non esiste, essendo la parlata ordinaria frutto di una miscela di influenze e di usanze verbali diverse, mutuate da linguaggi nuovi ( televisivo, informatico...), da codici specifici ( come la moda, lo sport, la pubblicità) e anche da idiomi stranieri, come i sempre più numerosi anglismi, deprecati da tanti nostri lettori. È comunque auspicabile, da parte di chi opera nell’informazione, il recupero e l’esercizio di un’adeguata e doverosa attenzione alla correttezza dell’italiano; non tanto per sfoggio di stile ma soprattutto perché al nitore delle parole ( cioè della forma) corrisponde un’analoga trasparenza dei concetti ( contenuti). Insomma, la chiarezza, la correttezza e la leggibilità dei testi giovano alla comprensione delle notizie, quindi alla credibilità del prodotto e al suo rapporto col pubblico. Su questa strada università, scuole di formazione al giornalismo, aziende editoriali, redazioni hanno parecchio lavoro da fare. Per quanto riguarda l’esempio concreto che lei propone, devo tuttavia rilevare che oramai anche i dizionari considerano « il fine settimana » come lemma unico, di genere maschile. Non ce ne voglia se anche noi ci inchiniamo. Davvero cordialmente.

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