mercoledì 4 novembre 2009
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La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che condanna l’Italia per l’e­sposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, non si basa di certo su argomentazioni nuove o approfondite, ma si limita a ribadire il prin­cipio laicista, che vede in qualunque simbolo religioso cui venga dato rilievo in un’istituzio­ne pubblica un attentato alla libertà religiosa e per quel che concerne le scuole alla libertà di educazione. La sentenza richiama somma­riamente, ma con una certa precisione, le ar­gomentazioni in base alle quali la magistratu­ra italiana, dopo qualche tentennamento, era giunta a concludere che nella tradizione del nostro Paese il crocifisso non è un simbolo e­sclusivamente religioso, ma culturale e civile: in esso si condensa gran parte della storia ita­liana, in esso si riassume una sensibilità diffu­sa e presente non solo nei credenti, ma anche nei non credenti. In quanto icona dell’amore, della donazione gratuita di sé e della violenza estrema cui può soccombere l’innocente, quando le forze del male lo aggrediscono, il crocifisso è un simbolo universale, non con­fessionale. Gli spiriti veramente grandi l’han­no sempre compreso: se non tutti credono in Gesù come Cristo, nell’umanità sofferente del­l’uomo Gesù, appeso alla croce e che accetta il supplizio, dobbiamo se non credere, alme­no avere tutti un profondo rispetto, se non vo­gliamo ridurre la convivenza tra gli uomini a un mero gioco di forze anonime e crudeli. Tutto questo, evidentemente, non è stato per­cepito dalla signora Soile Lautsi, la madre che pur di fare eliminare il crocifisso dalle aule, ha iniziato (nel 2002) una lunga, complessa (e, presumo, anche costosa) procedura giudizia­ria, né è stato percepito dai giudici che alla fi­ne hanno accolto le sue ragioni. La vicenda giudiziaria potrà riservarci ancora sorprese. Quello che non ci sorprende più, purtroppo, è l’accecamento ideologico che sorregge questa vicenda, la completa indifferenza per le ragio­ni della storia e della cultura, l’illusoria prete­sa che la mera presenza di un crocifisso possa fare violenza alla sensibilità degli scolari e giun­ga ad impedire ai genitori di esercitare nei lo­ro confronti quella specifica missione educa­tiva, che è loro dovere e loro diritto. E non ci sorprende più, purtroppo, il fatto che i giudi­ci della Corte europea non percepiscano di a­gire con queste loro sentenze contro l’Europa, contro il suo spirito, contro le sue radici, ren­dendo così l’Europa stessa sempre meno 'a­mabile' da parte di molti che, pure, ritengono l’europeismo un valore particolarmente alto. Ancora: è sfuggito alla ricorrente e – cosa an­cor più grave – è sfuggito ai giudici che hanno redatto la sentenza che la laicità non si garan­tisce moltiplicando gli interdetti o margina­lizzando le esigenze di visibilità della religio­ni, ma impegnandosi per garantire la loro com­patibilità nelle complesse società multietni­che tipiche del tempo in cui viviamo. La laicità non prospera nella freddezza delle istituzioni, nella neutralizzazione degli spazi pubblici, nel­l’abolizione di ogni riferimento, diretto o in­diretto, a Dio. Quando è così che la laicità vie­ne pensata, propagandata e promossa si ot­tiene come effetto non una promozione di quello specifico bene umano che è la convi­venza, ma una sua atrofizzazione. La sensibi­lità religiosa, ci ha spiegato Habermas ( un grande spirito laico) non è un residuo di epo­che arcaiche, che la sensibilità moderna sa­rebbe chiamata a superare e a dissolvere, ma appartiene piuttosto e pienamente alla mo­dernità, come una delle sue forze costitutive: tra sensibilità religiosa e sensibilità laica non deve mai istaurarsi una conflittualità, ma una dinamica di 'apprendimento complementa­re', alla quale non può che ripugnare ogni lo­gica di esclusione. Quanto tempo ancora ci vorrà perché simili verità vengano finalmente percepite dai tanti ottusi laicisti, che pensano ancora che sia dovere fondamentale degli e­ducatori quello di indurre le giovani genera­zioni a vivere «come se Dio non ci fosse»?
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