mercoledì 18 dicembre 2013
Troppo alti i costi delle opere di tutela. Per evitare nuove tasse non resta che il capitale privato. (Paolo Viana)
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Un mese fa, Olbia. Tredici anni fa Soverato. In mezzo, un’alluvione di parole sul dissesto idrogeologico. E piani, tanti piani. Il più recente prevede la revisione delle norme urbanistiche (compreso il divieto di condoni edilizi), l’obbligo della manutenzione dei boschi e dei canali, la concessione a cooperative giovanili di terreni abbandonati, persino l’istituzione di un fondo per i privati che aiutino a curare il territorio malato. Quest’ultimo sarebbe il punto più innovativo se veramente si volesse voltare pagina su una politica del territorio a senso unico, interamente dipendente dall’intervento dello Stato. Quanto sia vana la pretesa di finanziare con fondi pubblici la difesa del suolo lo dimostra lo spread tra la gravità della situazione e le risorse in campo. Stando alle statistiche, sei milioni di cittadini abitano in  zone ad alto rischio e 22 in zone a medio rischio; 1,26 milioni di edifici potrebbero essere travolti da frane e alluvioni; 6.000 sono scuole e 531 ospedali; in base ai Piani per l’assetto idrogeologico (Pai), le aree «a riconosciuta criticità idrogeologica» sono pari al 9,8% del territorio. Il fabbisogno finanziario per assicurare la sicurezza della popolazione è, secondo le ultime stime, di 44 miliardi di euro (4 miliardi per le coste): in sette anni, tra il 2000 e il 2007, lo Stato ha speso meno di 4 miliardi, accontentandosi di rincorrere le emergenze. Anche queste hanno però dei costi altissimi: l’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica del Consiglio Nazionale Ricerche (Cnr) ha stimato che tra il 1950 e 2012 si sono registrati 1.061 eventi franosi e 672 inondazioni con oltre 9.000 vittime e 700mila sfollati; per Ance-Cresme riparare i danni costa 870 milioni all’anno.
Per uscirne occorrerebbe invertire processi come il mutamento climatico, la cementificazione, un disordinato uso del suolo… È fin troppo chiaro che la realizzazione di opere di difesa costituisce l’unica strada percorribile e uno Stato impoverito come il nostro può percorrerla solo rivedendo le sue norme e chiedendo aiuto ai cittadini. Ed è altrettanto chiaro che l’unica alternativa a nuove forme di tassazione è la partecipazione del capitale privato alla difesa del suolo, nel rispetto dei piani regolatori e in partnership con il pubblico. La qual cosa non è una bizzarria e men che meno un monstrum: si chiama sussidiarietà ed è un principio costituzionale.La legge di riferimento che muove questo settore è la 183/89 (Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo). È rimasta parzialmente sulla carta, ma ha introdotto l’obbligo di adeguare gli strumenti di pianificazione urbanistica delle Regioni e dei Comuni alle indicazioni del piano di bacino idrografico, prevedendo in caso di inerzia poteri sostitutivi. Nessuno vi fa ricorso e i contenziosi fioccano; la Consulta ha dovuto richiamare esplicitamente Stato e Regioni alla reciproca cooperazione. Altro nodo: i piani di assetto idrogeologico. Pur individuando le aree a rischio, non sempre danno chiare indicazioni sui beni esposti e sulle priorità, sono disomogenei nel classificare le aree franose e alluvionali, andrebbero aggiornati e le tecnologie sono già disponibili, visto che da anni il ministero dell’Ambiente e l’Arma dei Carabinieri collaborano a un programma di telerilevamento che permette di tracciare perfettamente aree pericolose e beni vulnerabili. Eppure tutto procede con lentezza esasperante.
Nella genesi del rischio idrogeologico contano anche i processi macro, come antropizzazione e cementificazione, abbandono dei terreni montani, abusivismo e scarsa manutenzione dei corsi d’acqua… Si stima che il consumo del suolo, nel periodo 1990-2005, sia stato di oltre 244.000 ettari all’anno (circa due volte la superficie del Comune di Roma), oltre 668 ettari al giorno (circa 936 campi da calcio). Cosa c’entra? Un suolo non impermeabilizzato può incamerare fino a 3.750 tonnellate di acqua per ettaro, pari a 400 millimetri di precipitazioni, e negli ultimi 40 anni la superficie coltivata in Italia si è ridotta del 28%. Di tutte, però, la principale lacuna riguarda l’incapacità di collegare conoscenze e politiche. Gli strumenti urbanistici degli enti locali spesso non sono coordinati con i piani dei bacini idrografici e non tengono conto dei coefficienti che caratterizzano i fenomeni idraulici. Non tutti i disastri sono imprevedibili. Le modificazioni del regime pluviometrico su scala territoriale alla luce del mutamento climatico vengono già valutate dai tecnici a livello di bacino idrografico eppure non sempre gli enti locali ne tengono conto nell’autorizzare nuovi insediamenti o per decidere se delocalizzare quelli esistenti. La legge permetterebbe di fare anche questo ma non c’è sindaco che si azzardi... Eppure, i nostri vecchi sapevano che in certi casi le radici vanno recise: tra il Lazio e l’Abruzzo, sui promontori del Reatino, si incontrano numerosi paesini abbandonati dopo il disastroso terremoto del 1915. Veniamo alle risorse. L’Associazione nazionale delle bonifiche presenta da anni un piano di interventi contro il dissesto e i governi in bolletta allargano le braccia. Si è arrivati a un importo di 7.409,6 milioni. I consorzi di bonifica e irrigazione sono già un esempio di sussidiarietà, perché la stragrande maggioranza dei quasi 600 milioni di euro di contributi che ricevono dai loro utenti vengono reinvestiti nella manutenzione della rete idraulica. Ciò evidentemente non basta, come non bastano le opere di manutenzione ordinaria delle Regioni e degli altri enti locali. Si può chiedere ai privati di dare una mano, estendendo l’obbligo di manutenzione dei boschi, già previsto dalla normativa antincendi. La prospettiva più promettente resta però quella del project financing: permette di coinvolgere i privati nella difesa del suolo in partnership con il pubblico, superando i vincoli di finanza pubblica che oggi paralizzano ogni decisione.
Questa strada, mai percorsa con convinzione dai governi perché fraintesa con la privatizzazione del territorio, consente di realizzare opere complesse in tempi contenuti, senza il frazionamento in lotti necessario nel caso in cui le risorse pubbliche siano ampiamente insufficienti per la realizzazione. Ovviamente, per seguire questa strada occorre che l’opera pubblica – che ovviamente osserverà tutte le norme urbanistiche – presenti una redditività tale da risarcire i costi che il privato sostiene e garantirgli un utile per la remunerazione del capitale di rischio. Le opportunità sono tante: opere di urbanizzazione in aree a rischio, insediamenti turistici o residenziali in zone che necessitino di interventi di messa in sicurezza, in particolare nelle aree costiere... Uno strumento del genere dev’essere soggetto a controlli che impediscano eccessi di discrezionalità, ma permette di realizzare, per restare al caso sardo, le casse di espansione (o laminazione) che sono drammaticamente mancate in quest’occasione. Sono aree che consentono lo stoccaggio temporaneo delle masse d’acqua portate dalla piena dei fiumi e che negli altri periodi vengono impiegate per fini ricreativi o agricoli. Analogamente, si possono realizzare con i privati dei nuovi invasi che permetterebbero di controllare le acque ma anche di aumentare l’offerta idraulica. Un’altra esigenza non secondaria in Sardegna come in tutto il Sud Italia.
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